«Lavoro in Italia? Lauree in ingegneria e fisica, ma solo umiliazioni. Dal 2004 la Germania: felici e tre figli»
Come Rosanna e suo marito Antonio hanno costruito un'(ottima) vita in Germania
«Era il 2003. Mio suocero aveva, ed ha, una piccola azienda di ingegneria. Antonio, mio marito, già laureato in Ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, si era appena laureato anche in Fisica Nucleare a Pavia. Avrebbe potuto lavorare nell’azienda di famiglia dove io stesso lavoravo come ragioniera, ma aveva 27 anni e voleva conoscere il mondo. Si mise a cercare lavoro nella nostra zona, ma tenendo in considerazione tutta la Lombardia. Siamo entrambi milanesi, anche se poi siamo cresciuti in provincia, lui a Cassina de’ Pecchi e io a Gorgonzola. Ci sono tanti aneddoti che potremmo raccontare di quel periodo di colloqui, dal “Due lauree? non abbiamo nulla da offrirti, chissà che stipendio vuoi!” nonostante Antonio volesse semplicemente iniziare a lavorare al canonico “lei é troppo qualificato per quello che offriamo”. Era una continua delusione, ma quello che più di ogni altro lo spinse all’idea di cercare anche fuori dall’Italia fu un discorso fattogli da un responsabile delle risorse umane durante un’intervista. “Vedi, qui é importante la gerarchia. Tu non puoi pensare di andare a bere il caffè in pausa con gli amministratori, capito? Tu puoi fare comunella solo con quelli al tuo livello”. Ancora oggi ci chiediamo il senso di quel discorso. Certo è che qualche mese dopo ci trasferimmo in Germania. E ancora oggi la decisione ci sembra sia stata la migliore possibile». A raccontarcelo è Rosanna Mestice, classe 1978, attualmente operatrice sociale in un progetto per aiutare le donne e famiglie con Background migratorio ad integrarsi a Erlangen. La storia della sua famiglia racconta molto del mondo del lavoro italiano e di quanto i sacrifici, quando sostenuti da determinazione e correttezza, finiscono con l’essere ripagati. Lei e suo marito Antonio ora hanno tre figli e, come testimoniano testimoniare le foto, sembrano felici.
Come un ingegnere italiano finisce con il sentirsi costretto ad andare a lavorare in Germania
Continua Rosanna: «Nel 2004, dopo mesi a cercare e a mandare curriculum nonché una semiparesi facciale per via dello stress e la delusione nel ricevere sempre le stesse risposte, finalmente mio marito trova un lavoretto come programmatore in una azienda di Milano. Un contratto Co.Co.Co di ben 400 euro al mese per 6 mesi rinnovabili. Accetta, ma non è sicuramente così che possiamo pensare di costruire un futuro assieme. Un giorno dal padre arriva un rappresentante di condizionatori. Mio suocero era molto preoccupato e avvilito per il figlio e probabilmente lo lasciava trasparire. Ne parla con il rappresentante che gli spiega, a sua volta, che anche suo foglio era nella stessa situazione, ma da poco aveva trovato lavoro per un istituto della comunità europea in Belgio. Lascia il biglietto da visita del figlio raccomandandosi di contattarlo per capire se è a conoscenza di possibilità per persone con il profilo di Antonio. Mio marito non ha nulla da perdere. Gli scrive. Il ragazzo non ha lavori da proporre, ma gli dice dove poter mandare il curriculum,. Antonio lo fa. Una settimana dopo chiama un signore dalla Germania. Parla italiano. Ricordo benissimo quella telefonata perché fui io a prenderla. All’epoca, come detto, lavoravo da mio suocero e Antonio aveva lasciato il recapito dell’ufficio. “Buongiorno, chiamo dal Forschungszentrum di Karlsruhe, volevo parlare con il signor Antonio Ciriello”. Al colloquio al telefono ne segue un altro dal vivo a Karlsruhe, quasi al confine con la Francia. È il luglio 2004. Il primo settembre 2004 Antonio inizia un dottorato con borsa di studio all’ITU di Karlsruhe, l’Institut für Transurane, in collaborazione col Politecnico di Milano».
Crearsi una vita in Germania
«Mi piace ricordare la mia partenza in questo modo: era giugno 2005, carico la mia vita e Syria, la cagnolona che avevamo prima, sulla mia vecchia Fiesta e parto da sola verso Karlsruhe per raggiungere Antonio. Andiamo ad abitare in un monolocale nella periferia della città. La prima sera usciamo con dei suoi colleghi italiani. Al ritorno sullo Straßenbahn sono stupita nel vedere ragazze da sole che viaggiano tranquille alle 2 di notte. Cosa per me impossibile se penso alla metropolitana di Milano. Mi colpisce l’ordine nelle strade, ma anche il silenzio surreale sui mezzi di trasporto. Comincio poco dopo a lavorare in una rosticceria italiana, ma lascio dopo un mese perché non mi piace come i nostri connazionali trattano i propri dipendenti. Nel frattempo riprendo autonomamente, senza corsi, a studiare quel tedesco che avevo già parzialmente appreso durante gli anni di ragioneria, ma che se non pratichi finisci con il perdere. A settembre inizio a lavorare all’aeroporto di Baden Baden per una azienda italo-inglese che fornisce transfer con i bus in collegamento con i voli Ryanair. Nel 2008 Antonio finisce il progetto di dottorato, ma già nei mesi precedenti aveva trovato un uovo impiego. Mentre faceva il dottorato aveva seguito alcuni corsi di tedesco finanziati dal Forschungszentrum, una qualità che lo aiuta ad essere assunto da una azienda francese nel campo dell’energia con sede ad Erlangen, circa duecento kilometri più ad est di Karlsruhe. Ci trasferiamo. Io rimango incinta di Francesco e per un po’ metto logicamente da parte il lavoro. Nel frattempo lui, che ha iniziato come ingegnere progettista, diventa Vertriebsleiter, ovvero direttore tecnico-commerciale. È la sua attuale carica. Si occupa del Sud America e della Spagna. Almeno una volta al mese parte per lavoro. Ha 43 anni e sta facendo una carriera prestigiosa, é molto felice delle opportunità che l’azienda gli ha dato e gli sta dando, é un ambiente molto meritocratico».
L’ “altro” partner: ripartire da zero rimboccandosi le maniche
«Io ho ripreso a lavorare nel 2010 facendo volontariato al Mütter- und Familientreff di Erlangen e.V. È stata davvero la svolta per me. Ho iniziato a fare networking, ho conosciuto un sacco di persone e il mio tedesco é migliorato tantissimo. Le colleghe mi hanno inoltre incentivato a seguire la mia passione che avevo da sempre, ovvero la fotografia e nel 2011 mi sono messa in proprio e mi sono specializzata in fotografia di famiglia. Nel frattempo sono arrivati gli altri due figli: Giulio nel 2014 e Chiara nel 2017. Abbiamo comprato casa e quando ero incinta di Chiara ho iniziato a collaborare con lo Jugendamt di Erlangen ad un progetto nuovo. In pratica accompagno le famiglie italiane che parlano poco tedesco a colloqui con gli insegnanti, alle serate informative a scuola ecc ecc e fungo da interprete. Oltre a questo, nel 2019 ho iniziato a lavorare in Mütter- und Familientreff Erlangen e.V. ad un progetto finanziato dal ministero degli interni per aiutare le donne e famiglie con Background migratorio ad integrarsi a Erlangen. Mi occupo dell’amministrazione, contabilità e organizzazione degli eventi. La mia collega Sara é svedese e abbiamo un team assolutamente multiculturale, cosa che adoriamo»
La Germania e la nostalgia (?) dell’Italia
«Ho sempre adorato della Germani a che fin dall‘inizio le persone che alla mia frase “mi scusi per il mio tedesco imperfetto“ mi rispondevano „sapessi parlare io l‘italiano come lei parla il tedesco“. Mi piace il fatto che per ottenere quello che ti spetta, tipo Kindergeld et similia, non si debba avere requisiti assurdi e complicati. È un sistema democratico. Qui a Erlangen, essere stranieri non è un limite ma un vantaggio. Il lavoro per lo Jugendamt l‘ho trovato perché sono italiana e la mia lingua serve. I bambini spesso in estate girano da soli nel quartiere come facevamo noi negli anni ottanta senza pericoli. I medici spesso li devi spronare perché sono fin troppo cauti con le diagnosi, ma almeno non prescrivono antibiotici al primo starnuto. Come in tutti i processi di cambiamento, il nostro rapporto con la Germania ha comunque vissuto varie state fasi: l‘entusiasmo iniziale, una fase di tristezza mista a rabbia perché non riuscivamo ad abituarci alla mentalità semplicemente perché pretendevamo di imporre il nostro modo di vedere le cose. E poi adesso la serenità emotiva ed economica. Ci piace la cittadina in cui viviamo, ci piace il nostro lavoro, ci piace il fatto di sentirci anche qui a casa. Sinceramente non abbiamo mai pensato di tornare. I nostri figli sono nati qui, la nostra vita professionale e affettiva è stabile e soddisfacente. Certo, i nostri genitori ci mancano e soprattutto ora che diventano anziani e aumentano le problematiche si fanno spazio dentro di noi le paure e timori ma tornare vorrebbe dire rinunciare a moltissimo e non ne vale la pena. Siamo stati accusati da amici italiani di essere troppo esterofili, ma quando torniamo a Milano non ci sentiamo più a casa. Le persone sono spesso incattivite, la burocrazia con cui a volte abbiamo a che fare è snervante e la sanità, sebbene penso che in Italia i medici siano molto competenti e preparati, a volte ho dovuto assistere con i miei genitori a personale sgarbato e anche offensivo. Non pensiamo di vivere in Germania per sempre. Se pensiamo alla pensione, Il nostro sogno sarebbe quello di andare a vivere in un luogo di mare o in collina in un isola del mediterraneo quando i ragazzi saranno grandi».