Erasmus Foto di copertina (C )Wilerson S Andrade Globe-Map-Suitcase-Travel-1800x2880 - CC BY SA 2.0

«Io, generazione Erasmus, non ho paura dopo Bruxelles e continuo a credere nei valori dell’Europa»

di Federica Franchetti

Io e la mia valigia rossa viaggiamo da sempre. Insieme. Inseparabili. Non riusciamo a mettere radici in un posto. Ci lasciamo coinvolgere dai colori, dai monumenti, dalla storia, dalle persone che incontriamo nei posti dove andiamo. E non ci basta mai. Ne abbiamo presi di voli assieme. Tanti. Mai troppi.Poco più di un anno fa, marzo 2015, eravamo in viaggio verso Bruxelles. Poche ore di viaggio e attraversavamo l’aeroporto di Zaventem, pronte a prendere il primo taxi per il centro città. Attorno a me, tanti viaggiatori di diverse nazionalità. C’era il sole, era una splendida giornata di inizio primavera, forse una delle poche di quella che sarebbe stata la mia permanenza nella città belga. Mi sentivo entusiasta. I primi sei mesi sono stati eccezionali. Poi, 13 novembre 2015, è iniziata la paura: i voli cancellati per Parigi, il dramma visto dalla tv o ascoltato al telefono dai miei amici nella capitale francese: l’esercito sulla Grand Place, i fumogeni, il pianto di persone che potevano essere miei coetanei e conoscenti e in alcuni casi lo erano. Era stato colpito il cuore dell’Europa e da lì tutte le sue arterie. Bruxelles come Roma, Londra, Berlino e io con loro.

22 marzo 2016: gli attacchi di Bruxelles. Non vivo più nella capitale belga, ma a Berlino, da tre settimane, dopo una breve sosta a Bologna. Il 22 marzo 2015, un anno prima, io ero a Bruxelles. Mi sarei potuta trovare in quell’aeroporto, a quell’ora. O su quella metro. Quella era la mia linea. Ma non è solo il “se solo…” che mi ha sconvolto. È il contrasto tra ciò che ho visto e vissuto con i miei occhi, i miei “piccoli momenti di vita quotidiana” e ciò che è successo che mi impedisce di trovare il perché di certe tragedie. In questi anni di viaggi io e la mia valigia rossa abbiamo visto ragazzi turchi sorridere a ragazze armene, palestinesi sedesi al tavolo con israeliani e bosniaci musulmani e tutti assieme ballare l’ultima musica balcanica scritta da Goran Bregovic come nelle più ottimistiche fantasie di Emir Kusturica. Abbiamo intonato canti davanti ad un falò tra gli scout tedeschi, abbiamo aspettato l’alba con gli amici spagnoli e bevuto con le amiche lituane. E tanto altro ancora, sempre con la stessa sensazione: sentendosi a casa. Ora per noi è iniziato un nuovo viaggio, o meglio, una nuova esperienza: Berlino. Un modo per dimostrare che continuiamo a credere in questa Europa fatta di giovani che si unisconoa prescindere dalla nazionalità perché sono più i punti in comune, il guardare assieme ad un futuro di pace e libertà, il parlarsi per arricchirsi reciprocamente e non per “avere la meglio” e l’idea generale che la differenza culturale sia la base da cui partire e non per dividersi se si vuole veramente un futuro di pace.  Senso di appartenenza per noi significa questo. Non un passaporto: le difficoltà di un esame in una lingua diversa dalla propria, le risate, le cene assieme. Un filo rosso fatto di esperienze, di sogni e aspirazioni.

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Noi, figli dell’epoca dei viaggi low-cost, degli amori transnazionali, della tecnologia  24 ore su 24…noi, che le guerre per la libertà di movimento e per la libertà di espressione le abbiamo studiate solo sui libri di storia e non pensavamo mai avrebbero fatto parte del nostro presente…noi che apparteniamo ad una generazione in cui l’assenza di frontiere è un fatto naturale, noi, no, questa minaccia continua ai nostri valori non la possiamo capire, perché non è questo il mondo che abbiamo visto finora e per dimostrarlo continueremo a viaggiare, a trasferirci dove ci sono vita e processi d’integrazione. Perché nel 2016 si può morire per aver espresso un proprio pensiero, e non vogliamo avere paura di pensarlo quando decideremo della nostra vita, del nostro futuro.

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Foto di copertina (C )Wilerson S Andrade Globe-Map-Suitcase-Travel-1800×2880 – CC BY SA 2.0