I gabbiani volano basso – Diario di una quarantena italiana pensando a Berlino e a quell’estate sul balcone
Un racconto sul periodo di isolamento passato in Italia a firma di Cinzia Pierantonelli, germanista, docente universitaria e autrice di romanzi tra cui letteratura per ragazzi plurilingue
di Cinzia Pierantonelli*
2 aprile 2020. Stiamo ancora chiusi in casa. Sono ormai esattamente 4 settimane. Situazione inedita. Ci sentiamo come? Sospesi, disorientati, avviluppati dentro il nostro involucro protettivo, la nostra casa, quel luogo che piace perché è il luogo del reiterato nostos. Che piace meno se non dà possibilità di ritorno, perché non c’è uscita.
Siamo isolati.
Si avvertono presenze, troppe presenze in questa solitudine assillante. Ma quali presenze? Quelle di luoghi non frequentati in determinate ore, di spazi troppo aperti e disponibili durante lunghe giornate prive di tempo, denaturate dal loro ritmo abituale.
Si sentono anche le voci insolite di condomini mai ascoltati finora, un urlo, uno strillo, qualche parola al vento, forse sono bambini che giocano, non si capisce bene, adesso sembra un tono, brusco, qualcuno litiga, è nomale, penso, stando tutto il giorno chiusi entro quattro pareti! Il tono è ora brutale. Devo tentare di immischiarmi, qualcuno là ha bisogno di protezione, di essere difeso, forse una donna oggetto di una violenza domestica incontrollata, non può, non riesce a difendersi, a chiedere aiuto. Paralisi. Le urla scemano, riprende il silenzio assordante come riprendono le nostre attività interrotte per pochi secondi, siamo distratti da altre voci, una musica di sottofondo, strilla di bambini, e svaniscono i pensieri di preoccupazione per qualcuno di cui non si conosce neppure il volto, di cui non sappiamo nulla. La calma ricostituita ci rassicura e tranquillizza. Un colpo alla testa e poi, forse, solo un fiume di sangue, accade in un lasso di tempo insignificante, tra l’ultimo urlo e il silenzio. Ma noi non lo sappiamo, non vediamo, non sentiamo più e tutto torna come prima.
Le quattro pareti domestiche ci vincolano in rapporti coatti. Le quattro pareti domestiche ci occultano.
E’ un soffio. Senza ritorno dalla secure distancing a cui siamo costretti. Come possiamo sentirci sicuramente distanziati se quei 40 metri quadri mi impacchettano?
Ancora voci, toni più miti ma sempre incomprensibili.
Forse si raccontano, ridono, sussurrano per sentirsi vivi. Distraggono e deconcentrano, comunque. Ma non sono le uniche distrazioni.
Si sentono altre voci, quelle che provengono dall’etere. Il Bollettino incalza, non ha pietà, nella sequela di numeri, ci tiene sospesi inducendo i nostri sguardi a connotazioni sempre più tristi. Ricorda Radio Londra sentita clandestinamente sugli esiti di guerra: quelle immagini fissate nella memoria attraverso tanti film. Doveva essere proprio così: il fiato sospeso, la paura e la speranza che tutto finisse.
Nelle Filippine hanno l’ordine di sparare su chi contravviene all’ordine di non uscire di casa. Il capo della polizia ha detto che non succederà in realtà. C’è sempre però qualche testa calda che prende gli ordini per tassativi. Morti su morti. Nella corsia di un ospedale, per la strada. La Corea del Nord non è stata penetrata dal Coronavirus, ogni disposizione dittatoriale viene rispettata, anche dai nemici invisibili. E lo Yemen è ancora in guerra, con se stesso e non conta più neppure i suoi stessi morti.
Innervosiscono. Rattristano. Rumori uguali e diversi della strada: non c’è un po’ di pace qui? Il mondo iper-connesso e iper-globale mi si è ristretto dentro quattro pareti. Lì fuori non c’è molto più. Di notte si muove un’inedita fauna. Camminano tra le vie le volpi, corrono le lepri ai bordi delle strade e persino dei caprioli si avvicinano all’abitato. Di giorno anatre spensierate circolano liberamente sul selciato del paese, sono un piccolo esercito disarmato, ma fermo nell’intento di occupare il luogo. Falchetti, pappagalli e api ritornano in città.
Non hanno più timore di essere asfissiati dai gas di scarico.
La fauna cambia aria, viene in gita da noi, visita i centri abitati, sono turisti di un museo all’aperto, in una giornata del FAI. E’ tutto disponibile. Il mondo dentro intanto sta subendo una radicale svolta, chissà. Perché non si tratta solo di un crollo della Borsa a Wall Street, neppure di un conflitto tra paesi vicini in guerra o terrorismo che attacca indistintamente ma con obiettivi precisi, si tratta di un fenomeno inedito, mai vissuto prima, neppure centinaia di anni fa quando le epidemie colpivano molte zone contemporaneamente uccidendo migliaia di individui pur sempre in una dimensione circoscritta, tuttavia.
Si sentono ancora grida. Di fronte ad un Bancomat. Questa volta sono quelli che hanno capito in pochi secondi tutta la loro fragilità economica, si rendono conto di aver costruito piccoli inconsistenti castelli di carta soffiati da un forte vento, spazzati via rapidamente.Non vedono un oggi, non pensano neppure ad un domani.
193 i paesi infettati dal virus.
7 le isole che il virus ha risparmiato. Piccole comunità: diecimila abitanti, una manciata di uomini rispetto agli oltre 7 miliardi del globo; in un’isola arrivano 160 turisti ogni anno. Non li vogliono quei viaggiatori, tentano di stringersi più forte, sperano di scampare il male.
Nel paese più ricco del mondo, gli USA, guardano con rammarico a quello che sta succedendo, impotenti lasciano allontanare il capo della marina perché ha dubbi che i suoi marinai non vengano attaccati dal virus, si nega l’inefficienza. Nessuno protesta ora. Un video-party di protesta avrebbe senso? I gabbiani hanno iniziato a volare basso.
Laridae, becco a cesola, uccello marino dell’ordine dei Caradriiformi.
Bellissimo esemplare di volatile, ispira senso di libertà, suscita un senso di placidità, impressiona per il suo colore candido, è metafora del movimento svincolato da qualsivoglia impedimento: dal mare al territorio viaggia nell’aria incondizionatamente, riempiendo di fragorosi garriti il cielo. Domina le coste, le prossimità acquatiche.
Mari, laghi, fiumi. L’acqua non basta più. Coste, agglomerati, caseggiati, velocemente affolla e garrisce sull’asfalto, saltella su muretti, vola all’altezza di cornicioni, terrazze e balconi.
Penetra inesorabile ovunque, alla ricerca di cibo. Lo strillo, quel suono metallico, così strano, mi sveglia. Sta iniziando una nuova giornata sospesa nel nulla.
Il mondo qui fuori anche sta strillando, non vedo nessuno ma ho migliaia di immagini davanti ai miei occhi.
Sto dentro l’India e la Spagna, sto correndo tra corsie di ospedali, letti da campo, sale operatorie, ricoveri per anziani …
Ma no, sto comodamente seduta e sorseggio il caffè. Conte ci dice che non chiede all’Europa di remare per conto dell’Italia, abbiamo braccia solide e forti per poter remare da soli. Molti paesi sono solidali con l’Italia in questo momento, sostiene. Ci dimostrano affetto. Anche la Germania. La Bild Zeitung scrive una lettera in cui ci commisera, fa il tifo per noi, ci incita, ci ama. Noi o quello che siamo, realizziamo e possediamo?
Quel territorio costellato di poesia materializzatasi in chiese, architetture vecchie e nuove, tempestato di gemme uniche, solcato da limpide e dolci acque … quel territorio che trasuda cultura e civiltà. Quel patrimonio indiscusso dell’umanità di cui noi possiamo bearci quotidianamente. Quello ci invidiano, ben detto, sì! Ma non solo.
La Dolce Vita che è in noi, al lavoro come a casa. Questo ci invidiano, pure! Saper rendere dolce la vita, e basta!
Una lettera straboccante di stereotipi, nessuno si è preso la briga di svecchiarli neppure dopo il Muro, neppure con il Terzo Millennio, nonostante si sia viaggiato molto, restiamo pur sempre degli escursionisti. Conte dice che siamo forti! Noi vorremmo farcela vedo però che i gabbiani hanno iniziato a volare bassi.
Nessuno sa più bene cosa significhino parole come: solidarietà, comunità e fragilità, quando i gabbiani volano bassi, loro volano bassi in cerca di prede, di facili prede e sembra ce ne siano tante di più ora che non si lavora. Un fenomeno inedito nel terzo millennio in Europa. Inimmaginabile per le generazioni Z e Y mettersi in fila davanti al supermercato. Nel secolo scorso esistevano invece. Non ovunque, ma esistevano, nel passato, nel presente più recente. Le hanno fatte i nostri nonni durante la guerra.
Le hanno fatte intere generazioni in molti paesi comunisti, fino all’Ottantanove. Dopo sono scomparse. La società dell’opulenza non vedrà mai più una fila per acquistare generi alimentari, si pensava.
Mi ricordo la DDR, i negozi piuttosto sprovvisti e io che mi accontento, sono in fondo una giovane ragazza che non ha gran che e non vuole gran che. Mi ricordo di Mosca e Leningrado. File tristi, negozi tristi. Una lunga attesa e non trovare gran che. Il sistema è crollato perché mancava il superfluo.
A noi, invece, mancava il superfluo del superfluo. Poi la gente all’Ovest voleva a tutti i costi comprare l’ipersuperfluo e si dimenticava di averlo comprato, così lo ricomprava, per poi ridimenticarlo accatastato in qualche angolo recondito della casa, in cantina magari dove non si va quasi mai.
Eppure quelli dell’Est ci invidiavano.Il sistema è crollato per mancanza di tendenze, brand e influencers.
Volevano omologarsi diversamente. Ecco, volevano una diversa diversità omologata. A Mosca quell’anno faceva freddo sebbene fosse solo ottobre.
Non c’era gran che, non si vedeva nulla in vetrina. Solo delle donne avvolte nei loro scialli che si coprivano fino al naso, tanto era il freddo. Anche oggi ci copriamo fino al naso, tanta è la paura di contrarre il virus. Lasciamo gli occhi scoperti, li proteggiamo con occhiali da sole, ma i raggi sono svaniti. Allora faceva molto freddo e io avevo fame.
Per la prima volta in vita mia mi resi conto che si può morire di fame.
Un giorno, due, senza poter mangiare nulla. Capita quando devi fare un’ispezione allo stomaco, all’intestino, ma lo sai. Poi finisce tutto, piuttosto in fretta. Per gli occidentali si trova sempre una soluzione, hai dollari, paghi in dollari? Sì, certo. Allora puoi passare accanto alla fila. Hai dollari, ok, paghi in dollari?
Ho mangiato caviale, carne di cervo e borscht. Ho bevuto tè nero e champagne.
Hai dollari? paghi in dollari? Ok, ok!
Ora facciamo solo una fila. Ordinata. Scambiamo due parole civili con persone letteralmente sconosciute, forse le rincontreremo di nuovo in un’altra fila, chissà. Poi possiamo prendere tutto. Un gran che.
Il pane fatto in casa ha un sapore antico, quello delle cucine dei nostri nonni, bisnonni, che non avevano gran che, però suonavano, cantavano la sera in giardino e qualcuno ballava e qualcuno giocava. Non avevano un gran che. Noi abbiamo sempre un gran che. Ma alcuni no. Quando arrivano i sussidi? Che lavoro fai? Per chi lavori?
Già, per chi lavoro. Per lo stato non lavoro. Esisto? No, non esisto per lo stato.
Affiora lentamente un magma finora sommerso. Non fa paura. Non puzza. Ha semplicemente solo fame.
I gabbiani hanno iniziato a volare bassi.
Ho contato il tempo con la punta della mia matita per le labbra: è quasi spuntata del tutto. Zero Calcare mi fa ridere. È geniale nell’assemblare i luoghi comuni. Il vicino mette la musica a palla per l’ora autogestita di fitness, come nelle palestre, si rispetta ogni giorno il proprio turno: sono le sette di sera, è ora di cominciare. La musica frenetica rimbomba nelle mie orecchie. Adesso non mi da fastidio, sprofondo nel mio inconscio.
Oggi ci sarà un’altra polemica.
Siamo sempre in polemica con qualcuno per qualcosa mentre le volpi attraversano la strada, qui sotto. È quasi notte e i gabbiani transitano nei cieli portando il loro ultimo garrito della giornata, più forte della musica da discoteca che fora in miei timpani. Volteggiano leggeri intenti ad ispezionare ogni brandello di territorio da conquistare. Ho paura. Una notte piuttosto irrequieta perché sento dei passi sul balcone. Sono solo le quattro del mattino. Ancora è profondamente buio là fuori.
L’altro giorno due scellerati in motorino hanno tentato uno scippo. Davanti ai miei occhi. Penso che c’è disperazione, cresce ovunque.
Ho portato il cane a spasso e mi sono fermata di fronte all’aiuola in cui si è insediata da anni una senzatetto, una clochard, io la chiamo così per distanziarmi dal soggetto, fa meno paura la follia di chi vive senza casa. Avrà la mia età. Forse è anche più giovane di me, guardandola bene, mi sembra che abbia dei bei tratti del volto. In genere la vedo e cammino più velocemente. via. Mi ha sempre fatto un po’ timore quel suo sguardo penetrante e imperscrutabile.
Come da rimprovero. Ci manca pure che una clochard mi accusi di stare bene! Qualcosa mi spinge a parlarle, oggi. L’apostrofo con il Lei, ovviamente. “Ha riaperto la libreria?”, mi risponde subito con un tono gentile, i suoi lineamenti cambiano repentinamente e non vedo più quella durezza indagatrice che mi aveva sempre allarmata. “Sì.”.
“Ma qualche giorno fa avevano sgombrato tutto, chi è stato?”, le chiedo. Lei mi risponde con cortesia: “Sì. Non so. Hanno fatto piazza pulita!”. Non so più se l’ho pensato o detto: sarà stato per via del Coronavirus! Ha diligentemente riesposto orgogliosa la sua merce.
I libri che si vedono sulla sua vetrina fatta di erba, sassolini e terriccio sembrano semi-nuovi. Gli ultimi, che avevo visto prima dello sgombro, erano tutti bagnati dalla pioggia. Perché lei li lascia lì incurante, come se avessero un’esistenza. Aspettano poggiati lì sull’asfalto o sul muretto, come lei del resto, che spiova. Come lei del resto, si asciugano all’aria.
Questi qui sono quasi come usciti da uno scaffale. Mi chiedo dove li abbia presi. Non ho il coraggio di farle questa domanda bensì, come se fosse una qualsiasi negoziante che in tempi difficili guarda nelle proprie casse preoccupata, le chiedo: “Ma si vende qualcosa?”, lei subito con un sorriso gradevole, quasi accattivante, mi risponde: “Sì. Eccome!”.
Resto basita. Non posso pensare che mi stia prendendo in giro. Non posso pensare che non mi stia prendendo in giro. Facciamo lo stesso gioco.
Da quel momento mi diventa simpatica e non sono più sgomenta nell’incontrarla. Anzi, la vedo più tardi, ignara se mi abbia riconosciuto o meno, le sorrido mentre passa. Ormai si è instaurato un certo rapporto tra noi: lei è la libraia io sono la cliente.Domani forse acquisterò qualcosa.Ma dove vive?
4 aprile.
Oggi mio padre avrebbe compiuto gli anni. È sempre stato un bel giorno perché c’era la torta al cioccolato, mia madre la chiamava l’africana, perché lui aveva vissuto a lungo in Africa, per lui era una sublimazione. Lui, di grande inventiva, avrebbe sicuramente trovato il modo per creare delle mascherine, per proteggerci, per regalarle.
Anche le oche arriveranno. Starnazzeranno come loro solito. Ma questa volta le sentiranno bene anche in città. Sono esseri estremamente simpatici. Ricordano il piumaggio dei gabbiani. Candide e morbide ondeggiano sulle rive di fossi, dinoccolate vanno diritte alla loro meta e segnano il passo alla loro nidiata.
Per ora si vedono solo cani.Tutti fuori, come sempre e più di sempre, forse.
Sono felici di non dover fare i propri bisogni in gran fretta, come sempre succede. Adesso c’è tempo. Mi sveglio presto e vado sul balcone.
Una volta vidi il film Estate sul balcone, forse è stato premonitore in tempi non sospetti. È una pellicola tedesca che tratta dei primi anni dopo la riunificazione. Quelli di là, dell’Ovest, viaggiano perché loro sono stati i protagonisti del Miracolo Economico, questi di qua sono ancora poveri ed esclusi dalla vita manovrata dall’inessenziale e dall’extra. Allora possono solo assaporare un bicchiere di vino, marca scadente, sul balconcino della propria abitazione, facendosi penetrare lentamente i tepori della sera dentro le ossa.
Ora noi stiamo spesso sui balconi. Abbiamo persino cantato con ritmi ben scanditi e coerenza temporale, molti ci hanno addirittura preso ad esempio.
Adesso però non lo facciamo più perché lo scherzo è finito e, ognuno, a suo modo, si è ricreato nell’eccezionalità, una propria comfort zone serrata, l’isolamento nell’isolamento. Proprio quello che piace ai gabbiani. Vederci gli uni lontani dagli altri, queste sì che sono facili prede per loro. Sul balcone di prima mattina ci sono gli uccellini che cinguettano.
Una compagine di insetti privi di una specifica identità per la rapidità con la quale si librano, ragni, formiche ma, soprattutto, lumachine intente ad attecchire sulle foglie del limone. A quest’ora non mi ci metto a toglierle.
Mi affaccio dal balcone e vedo uno della cricca dei clochard che fanno la spola tra il giardinetto qui sotto e quello prima del tunnel. Cammina risoluto. Veloce passa davanti ai suoi compari che gli mormorano qualcosa del tipo “… vieni qui da noi, che hai lì con te…”, lui imperterrito va avanti, non si lascia abbindolare e, poi, noto che stringe sotto il braccio una piccola valigia. No, non può essere la sua. È un esemplare di vera pelle ancora lustro, sembra uscito da una vetrina di via Frattina per quanto è nuova. La tiene stretta a sé.
Mi chiedo dove l’avrà pescata! Lo perdo di vista. Sta fuggendo con la sua preziosa refurtiva. Passano ora dei macchinari che disinfettano le strade.
Non vedo tute, non vedo nebulizzazioni e non avverto odori di materiali sterilizzanti. L’aria è migliorata nelle ultime settimane.
Ecco le api.
Prima vedevo solo le vespe che considero come la famiglia delle fameliche. Finalmente le api che invece sono buone. Mi sembra che l’aria si stia riempiendo di particelle integre. Vedo più chiaro. Scendo a fare una passeggiata con il mio beagle. Gli piace annusare i freschi odori del mattino. È bello poter passeggiare.
All’orizzonte, tuttavia, si avvicina già qualche gabbiano. Una notte quieta come la notte precedente, accendo la radio che ha già iniziato a trasmettere la rassegna stampa e i Coronabond dominano le prime pagine. Ursula von der Leyen dice: “Care italiane e cari italiani non siete soli”. Lo sappiamo. I Coronabond? È forse una sorta di slogan? Allora Conte gli cambia nome, European recovery bond, e incalza l’Europa, scrive una bella lettera.
Qualcuno sa di cosa stiamo parlando?
Tutti lo sanno dai tanti commenti che rigurgita la rete.
La Cina ci guarda, la Russia pure e anche l’America di Trump a toni sommessi, ora, punta i riflettori sull’Europa, il piccolo grande mondo di culture millenarie soffoca dietro raccomandazioni, provvedimenti, decreti.
Le culture, le lingue, i caratteri, le opinioni si difendono. Le notizie sono finite e fuori c’è un bel sole. La vita riprende allo stesso modo di ieri.
In Cina sembrava tutto quasi finito ma invece non è così, l’invisibile presenza del nemico continua a terrorizzare. La Cina è lontana pensavano, pensavamo noi tutti guardano le cronache compassionevolmente. È una questione di percezione. Crediamo intimamente che la Cina sia così lontana.
A febbraio intere province cinesi mobilitate. Abbiamo guardato tanto increduli quanto spavaldi. Eravamo convinti che, come lo Tsunami nel 2004, non ci toccasse, la nostra piccola grande Italia fatta di culture millenarie soffoca dietro tagli alla spesa pubblica, alla ricerca, alla sanità.
Il pipistrello dorme di giorno, il pangolino sta scavando la sua tana, al mercato offrono una vastità di cibo, forse troppo per i nostri stomaci deboli.
Una marea di voci preannunciano cambiamenti radicali e io penso che dopo una peste c’è sempre stata un’altra peste anche se sono trascorsi molti decenni o secoli e dopo una terribile guerra si è prodotta un’altra guerra, magari più piccola e lontana, ma sempre una guerra.
E poi arrivano i gabbiani in stormo volteggiando, candidi, puntano diritti al loro obiettivo. Non si accontentano solo della spazzatura. Qualcuno si è affacciato al balcone e canta.
Un’ape mi sta ronzando attorno, mi piace vedere il suo pellicciotto peloso giallo-marrone, si infila nel geranio da poco sbocciato sul mio terrazzo.
2 maggio 2022.
Una notte quieta come la notte precedente, accendo la radio che ha già iniziato a trasmettere la rassegna stampa: “… Stiamo esplorando le strade per rafforzare la risposta comune europea …”, mi sembra che stiano parlando di fornire liquidità e operazioni mirate; un’intervista con il giovane premier inglese; un business-tycoon cinese ha acquistato una catena di hotel, si prevede un boom turistico in Grecia quest’anno. Vado a dare un saluto alle piante sul balcone prima di uscire, saluto anche mio padre nell’aria, nel giorno in cui morì. L’autobus passerà a momenti, mi devo affrettare. Mi piace camminare ad andatura sostenuta dopo una giornata di lavoro.
Il tempo è bello. Fa già caldo.
La libraia-clochard ha esposto diligentemente la nuova merce sul muretto, sparso i libri più vecchi sul praticello: manuale di scacchi, guida dell’Irlanda, libro di testo delle elementari, edizioni 2000, COVID-19 Outbreak.
Forse oggi le compro un libro. Magari dopo, quando ripasserò di lì.
I gabbiani volano alto mentre vengo distratta da una vespa che mi sta ronzando attorno, la caccio preoccupata che mi punga.
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