Berlino vieta la kefiah nelle scuole. Un pezzo di stoffa che è diventato un simbolo

La città di Berlino ha vietato con un provvedimento l’uso della kefiah nelle scuole. Ma cosa simboleggia questo copricapo? Dall’occupazione inglese alla polemica sulla cultural appropriation, passando per Arafat e la lotta armata, cerchiamo di ricostruire la storia di come un pezzo di stoffa è diventato il simbolo della causa palestinese

Qualunque comportamento o opinione che possano essere intesi come a difesa o in favore degli attacchi contro Israele o a sostegno delle organizzazioni terroristiche di questi responsabili, come Hamas o Hezbollah, è da intendersi nella situazione attuale come una minaccia alla pace nella scuole, e perciò è proibito“.

È questo un passaggio della lettera che l’assessore all’istruzione Katharina Guenther-Wuensch (CDU) ha inoltrato questa settimana alle scuole della capitale tedesca. Il divieto si applica anche a “simboli e gesti ed espressioni di opinione in generale che non sono considerati reato “. In altre parole, niente più kefiah, bandiere palestinesi o sticker “Free Palestine”.

Il provvedimento è stato criticato poiché viola il diritto di associazione e di libera espressione. Allo stesso tempo lo scopo è quello di evitare che la scuola diventi un’altro terreno di scontro politico, come del resto è già avvenuto negli scorsi giorni a Berlino.

Kefiaha, ghutra, shemagh, pushi

Pochi oggetti possiedono una potenza simbolico-mobilitante come la kefiah. Essa è infatti oggi simbolo indiscusso della lotta per l’auto determinazione palestinese. Ma qual è la sua storia?

Innanzitutto sgombriamo il campo dagli equivoci: la kefiah non è distintamente palestinese. Questo drappo di stoffa, piegato a triangolo e utilizzato originariamente dai beduini per ripararsi dal caldo e dal vento del deserto, lo si trova infatti in gran parte del mondo arabo e anche in alcune zone della Turchia abitate dalla minoranza curda. Da un punto di vista etimologico, la parola kefiah sembra derivare da “Kufa”, una città nel nord dell’Iraq. A dimostrazione della sua diffusione in medio oriente, vi è la varietà di nomi (e di stili) che può assumere a seconda della regione: ghutra nei paesi del golfo, shemagh in Giordania, pushi nel Kurdistan. Spesso la kefiah viene tenuta ferma da un egal, una sorta di cerchietto in tessuto.

L’ingresso della kefiah in politica

Detto ciò, è fuor di dubbio che la kefiah palestinese, bianca e nera, sia col tempo andata ad assumere un preciso significato politico che, spesso, trascende il suo uso pratico. Sebbene l’attuale escalation del conflitto israeliano-palestinese abbia riportato la kefiah al centro dell’attenzione, complice anche la tendenza alla comunicazione per via simbolica dei social media. Questo copricapo è da tempo un simbolo politico, utilizzato prima per la lotta contro la dominazione inglese e in seguito israeliana.

Il primo ingresso della kefiah nell’arena di scontro politico lo si ebbe in occasione della Grande Rivolta Araba del 1936-39, in quello che al tempo era noto come Mandato Britannico della Palestina. Alla base della rivolta troviamo un’aperta ostilità verso la nascente immigrazione ebraica in terra palestinese, foraggiata dagli inglesi a seguito della dichiarazione di Balfour (1917). Complice di ciò, la persecuzione anti giudea in Europa, intensificatasi in quel periodo. In questo contesto, la kefiah era usata dai nazionalisti palestinesi per nascondere la propria identità ed evitare l’arresto, al punto che i britannici paventarono l’ipotesi di arrestare chiunque la indossasse.

Lotta armata

La definitiva consacrazione della kefiah come bandiera de facto della Palestina e icona mondiale della resistenza contro l’oppressore, a qualunque latitudine, si ebbe a partire dagli anni ’60 del ‘900.

Leila Khaled è stata parte del commando armato del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) che nell’agosto 1969 dirottò il volo TWA 840 Roma-Tel Aviv. Prima donna a prendere parte ad un dirottamento aereo, la Khaled si ripetè l’anno successivo partecipando ai quattro dirottamenti di Dawson’s Field che dettero avvio al Settembre Nero, contribuendo in maniera decisiva a mettere la questione palestinese al centro dell’attenzione pubblica mondiale.

È diventato iconico lo scatto che la vede, all’indomani del dirottamento del volo TWA nel 1969, indossare una kefiah a mo’ di hijab e imbracciare un kalashnikov, quasi a voler rimarcare la sua parità rispetto agli uomini nella lotta armata palestinese.

Una pistola in un braccio e un ramo d’olivo nell’altra

Ma la figura che più in assoluto ha radicato la kefiah nell’immaginario collettivo è Yasser Arafat. Storico presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), padre politico della resistenza palestinese e premio Nobel per la pace nel 1994, Arafat veniva raramente visto in pubblico senza kefiah. È da ricordare infatti che la bandiera palestinese venne messa fuori legge da Israele nel 1967 a seguito della Guerra dei Sei Giorni, cosicché la kefiah divenne elemento cardine del repertorio simbolico a disposizione dei sostenitori della causa palestinese. A consegnare definitivamente questo drappo di stoffa ai posteri fu il discorso pronunciato da Arafat all’assemblea delle nazioni unite nel 1974, passato alla storia come il discorso della pistola e del ramo d’olivo.

L’internazionalizzazione della kefiah

A metà fra lo statement politico e il fashion, col tempo la kefiah palestinese bianca e nera ha rotto i confini del medio oriente, diventando prima uno dei simboli di movimenti studenteschi, pacifisti e anti-colonialisti. Non è un caso che sia stata indossata, fra gli altri, da personaggi come Nelson Mandela e Fidel Castro.

Poi, con l’avvento del fast fashion, sono stati molti i brand occidentali che hanno fatto della kefiah fonte di ispirazione per le loro collezioni, con esiti più o meno discutibili. Il noto brand inglese Topshop, ad esempio, ha commercializzato nel 2017 un vestitino “festival ready” con un pattern ispirato alla kefiah palestinese. Stesso discorso per la sciagurata “sciarpa anti guerra” di Urban Outfitters, o l’intera collezione di Cecile Copenhagen, tutt’ora disponibile su About You.

Cultural appropriation

Casi del genere possono essere visti secondo alcuni un esempio di cultural appropriation. Vi è infatti il rischio che così facendo la kefiah venga svuotata del suo significato, sfruttando nel mentre la causa palestinese per proprio tornaconto economico. Secondo quanto dichiarato al The Guardian da Omar Joseph Nasser-Khoury, fashion designer palestinese, la kefiah palestinese è “simbolo di oppressione, ingiustizie ed insediamenti coatti. […] L’uso che ne fanno i brand di moda è irrispettoso“. Continua poi Nasser Khoury: “Non stiamo parlando di un design qualunque. C’è una storia dietro, un enorme squilibrio di potere, un privilegio ingiusto. Ci sono persone che sono state cacciate nel ’48 e che ancora vivono nei campi profughi del Libano. Fa male vedere che questo oggetto intriso di dolore è usato per mero vezzo estetico“. 

L’importanza del simbolo

Fra manifestazioni represse con la violenza e stelle di Davide che compaiono sotto le abitazioni di ebrei, Berlino è nell’occhio del ciclone. La decisione di vietare la kefiah nelle scuole, così come altri simboli pro-Palestina, è sicuramente una decisione drastica che testimonia la tensione che si percepisce in città.

I simboli si prestano perfettamente ai tempi e ai modi della nostra comunicazione ipertrofica e faziosa. Ma è necessario anche essere consapevoli della loro storia e di cosa significhino per alcuni.

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