Il nostro ricordo di Luigi Reitani, ex direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Berlino, persona fuori dal comune

Nella vita e nel lavoro ho sempre creduto nel dialogo tra gli uomini e tra le culture, nel valore formativo della conoscenza. Mi sento con convinzione europeo e ho dedicato molti anni della mia vita allo studio della lingua e della letteratura tedesca. A Berlino mi sono sentito e mi sento tuttora a casa. È per queste ragioni che la direzione dell’Istituto Italiano di Cultura ha costituito per me una straordinaria occasione, in cui ho cercato di investire tutta la passione e le competenze di cui ero capace.

Luigi Reitani, discorso di congedo dal ruolo di Direttore dell’Isituto Italiano di Cultura, settembre 2019

 

Luigi Reitani è morto tra sabato 29 e domenica 30 ottobre. L’ex direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Berlino, carica ricoperta dal 2015 e il 2019, vaccinato con due dosi, con febbre a 39 e tosse, era risultato positivo a un tampone rapido il 12 ottobre. Il 14 un molecolare aveva confermato il contagio. Pochi giorni dopo era entrato in rianimazione. Una settimana dopo era stato intubato. Le condizioni non sono mai migliorate fino al drammatico epilogo.

Luigi Reitani lascia la moglie e le due figlie e un immenso numero di amici o persone che gli volevano bene e lo stimavano, sia per la sua eccezionale capacità divulgativa – era tra i più grandi germanisti italiani della nostra epoca (i suoi studi si soffermarono soprattutto su Hölderlin) – che per la sua affabilità, il suo entusiasmo e la sua cordialità, qualità profuse in tutti gli ambiti che ha toccato.

Era una persona speciale e non è un caso se la notizia della sua morte stia rattristando chiunque ne sia venuto a conoscenza: non solo chi gli era caro, ma anche chi, da lontano, aveva osservato il suo lavoro, il suo impegno e i tanti progetti che aveva lanciato o provato a lanciare.

Era giovane nell’animo, sempre.

Nato nel 1959 a Foggia, ma originario di Cerignola , aveva finito per fare di Udine la sua casa dove teneva una cattedra di letteratura tedesca e in cui era stato anche assessore alla cultura dal 2008 al 2013. Scriveva regolarmente per il Sole24 ore e aveva pubblicato diversi libri e testi di critica letteraria. La sua ultima opera era è “Prose, teatro, lettere”, traduzione delle opere di Hölderlin, che è stata pubblicata all’interno della collana I Meridiani della Mondadori.

«Credo nell’empatia, nella possibilità di entrare nella vita di altre persone e capirne i sentimenti, le ragioni, i problemi – e condividerli. E credo che l’empatia ci aiuti molto a capire la diversità che esiste». Così Luigi Reitani ci spiegò il suo amore per Hölderlin, l’autore tedesco a cui ha dedicato una gran parte del proprio lavoro di critico letterario. Quell’empatia che menzionava era la stessa che lui stesso metteva fin da subito a disposizione di ogni persona con cui si interfacciava, che fosse qualcuno di già affermato o un giovane pieno di idee desideroso di un confronto su qualsiasi tematica, letteraria o una nuova iniziativa da provare a lanciare. Chiedeva che gli fosse dato subito del tu e poi ascoltava con attenzione. Come chiunque abbia delle opinioni frutto di ragionamenti e non di istinti, cambiava idea solo se dall’altra parte notava che un analogo processo logico era stato fatto partendo da solide basi. Se era così, era pronto a rimettere tutto in discussione. Era a favore del fare per gli altri, mai per se stesso. E così, a cascata, era il mondo di persone che si era costruito intorno.

Il 19 ottobre del 2019 Luigi Reitani aveva ricevuto l’Ordine al merito (Bundesversdienstkreuz) della Repubblica Federale di Germania conferito dal Presidente Frank-Walter Steinmeier e lì rappresentato dall’Ambasciatore tedesco nella capitale italiana Viktor Elbling con un discorso che pensiamo bello riproporre per chiudere il nostro ricordo di questa splendida persona di cui deteniamo tanti ricordi personali e che possiamo ancora ritenere un amico, semplicemente da un’altra dimensione. I suoi insegnamenti, correttezza e gentilezza facevano già parte della nostra crescita, ora – come purtroppo il destino ci ha imposto che sia -, scolpiti ormai nell’immutabile marmo del tempo, lo saranno ancora di più.

…durante la mia infanzia e giovinezza non ho mai avuto un contatto diretto né con la Germania, né con la sua lingua e cultura. Come ogni altro europeo della mia generazione ero piuttosto attirato dalla cultura pop britannica e americana. Al di fuori delle frontiere nazionali c’erano per me i Rolling Stones e Bob Dylan, il cinema di Hollywood e Jack Kerouac, non Goethe e Schumann. D’altra parte, molto presto ho ascoltato i miei genitori raccontare della Germania e dei tedeschi. Si trattava, come ci si può immaginare, di racconti di guerra. Appena laureato in medicina, mio padre era stato destinato a prestare servizio in un ospedale militare a Trieste, dove lavorava insieme a colleghi tedeschi. Mia madre parlava di militari tedeschi stanchi e impauriti in ritirata dalle città dell’Italia centrale. Con i tedeschi, così pensava il bambino, dovevano esserci stati dei problemi. Perché si trovavano in Italia durante la guerra e perché si erano dovuti ritirare? Da che parte stavano? E da che parte stavamo noi italiani? Questo non mi veniva spiegato, neppure a scuola, e ho avuto bisogno di molto tempo per venirne a capo. Nel frattempo il bambino aveva conosciuto i tedeschi in vacanza sul lago di Garda. Parlavano una lingua incomprensibile e sembravano allegri.
Questa naturalmente non era ancora una buona ragione per imparare il tedesco. Ciò è avvenuto solo all’Università di Bari, dove volevo studiare letteratura italiana. I miei interessi si indirizzavano anche alla filosofia e alla musicologia. Al primo anno di corso ho letto l’Estetica di Hegel e la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer, in traduzione italiana, si intende, ma senza capirci molto lo stesso. Che al secondo anno di corso mi sia deciso a studiare letteratura tedesca si deve un po’ al caso e molto alle qualità didattiche di Giuseppe Farese, ordinario della materia, che teneva le sue lezioni in forma seminariale per un piccolo gruppo di appassionati. Nel suo studio universitario si accendeva la pipa e noi potevamo discutere di Thomas Mann, Franz Kafka e della letteratura del fine secolo. E anche di Nietzsche, di cui in quegli anni Giorgio Colli e Mazzino Montinari pubblicavano l’edizione critica.
Dopo essermi laureato discutendo con lui una tesi su Arthur Schnitzler, Farese mi spedì a Monaco di Baviera, perché imparassi davvero, come mi disse, il tedesco. Il clima della città universitaria mi affascinò subito. In una libreria di Schwabing acquistai una particolare edizione in cofanetto delle opere di Hölderlin, pubblicata dalla casa editrice Insel. Tredici anni e alcune stazioni di vita dopo ho ricevuto l’incarico di tradurre in italiano le sue poesie. Questo lavoro ha cambiato la mia vita e ha contribuito a far sì che mi recassi spesso in Germania, entrando in frequente contatto con i tedeschi. Insieme alla mia famiglia ho trascorso due estati a Marbach. Mentre io facevo ricerche nell’Archivio Nazionale della Letteratura Tedesca, le mie figlie e mia moglie frequentavano le piscine all’aperto nei dintorni. A Tubinga ho fatto parte per dodici anni dell’Ufficio di Presidenza della Società letteraria dedicata a Friedrich Hölderlin. A Stoccarda sono diventato frequentatore abituale della Biblioteca del Land. A Friburgo ho tenuto un seminario sulla poesia italiana in traduzione tedesca. A Berlino ho ricevuto una borsa di ricerca del Servizio Tedesco per lo Scambio Accademico. A Francoforte sul Meno sono diventato membro del Consiglio Scientifico del Freies Deutsches Hochstift, la fondazione che gestisce la casa natale di Goethe e il costituendo museo del Romanticismo. Convegni e inviti a tenere conferenze mi hanno dato modo di visitare numerose città della Germania. Si è così sviluppata un’ampia rete di relazioni scientifiche e di amicizie personali. Sempre meglio e sempre più ho avvertito come la cultura italiana e quella tedesca siano intrecciate tra loro e come siano entrambe parti costitutive della comune cultura europea.
Queste esperienze mi sono state assai utili quando sono stato chiamato a dirigere l’Istituto Italiano di Cultura a Berlino. Sono stati quattro anni meravigliosi di crescita umana, in cui ho toccato con mano quanto sia straordinario l’interesse dei tedeschi per l’Italia. Non solo per il Paese “in cui fioriscono i limoni”, per il paesaggio meridionale e il patrimonio culturale, ma anche per il presente, per suoi problemi, per le opere che nascono adesso e per gli artisti che qui lavorano. Ed è questo sguardo dall’esterno che mi ha portato nuovamente a occuparmi delle opere della cultura italiana. Giacché è forse questa la prospettiva di cui abbiamo bisogno, quando ci mettiamo in cerca della nostra storia e ricerchiamo le nostre radici, non nel suolo, ma in cielo, dove esse in realtà si trovano, come afferma Dante nella Divina Commedia. “Ciò che è proprio”, scrive Friedrich Hölderlin in una celebre lettera a Casimir Ulrich Boehlendorff, “deve essere ben appreso come quanto ciò che estraneo”.

 

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