Il riscaldamento globale non è colpa dell’Europa (né degli USA) e il lockdown lo dimostra

Nuovo appuntamento con Kipling, rubrica a firma di Stefano Casertano

Le emissioni globali di CO2 sono scese del 5,6% a causa del lockdown: non è sufficiente per fermare il riscaldamento globale, ma lascia sperare alcuni che il calo sia un’occasione di ripensare il modello capitalista occidentale. Il problema è che, in realtà, il modello capitalista occidentale sta riducendo le emissioni da tanti anni, ben prima del coronavirus.

Le emissioni americane sono al livello più basso dal 1992 – a parte un lieve incremento nel 2018. Ciò è avvenuto nonostante un’economia più che raddoppiata in termini reali. In Europa, tra il 1990 e il 2016 la diminuzione delle emissioni è stata del 22%, peraltro rispetto a un target continentale del 20%. Anche nel caso europeo, l’economia praticamente è raddoppiata.

I  veri protagonisti del cambiamento climatico

Alla base di questo miglioramento non ci sono state tanto le energie rinnovabili, quanto la sostituzione del carbone con il gas nella produzione di energia elettrica.

Com’è possibile, allora, che a livello globale le emissioni di CO2 siano incrementate da 22,6 miliardi a oltre 37 miliardi di tonnellate l’anno? Il calcolo si risolve concentrandosi sulla Cina, più che sull’Occidente. Tra il 1990 e il 2017 le emissioni cinesi sono passate da 2,4 a 10,9 miliardi l’anno, con un incremento superiore al 350%. Da solo, il paese asiatico nel 2017 rappresentava il 27,5% delle emissioni globali, contro il 14,8% degli Usa e il 9,3% dell’UE a 26.

E’ chiaro che anche i cinesi hanno diritto a crescere: nel 1990 il Partito era appena scampato al precipizio politico di Tien-an-Men, ed è normale che un paese in emersione veda aumentare le proprie emissioni.

Il problema è il modello energetico che la Cina sta perseguendo. Per confrontare la situazione possiamo riflettere su un dato: le emissioni generate per produrre 1.000 dollari di pil. In Cina ogni 1.000 dollari viene emessa una tonnellata di CO2, mentre negli Stati Uniti e nell’Unione Europea vengono emesse rispettivamente 0,44 tonnellate e 0,27 tonnellate di CO2.

In altre parole, a livello di emissioni gli Stati Uniti sono il doppio più efficienti della Cina, mentre l’Unione Europea quasi quattro volte. Parte della responsabilità cinese è anche occidentale in quanto una quota della produzione di beni asiatici è destinata ai mercati europeo e americano. Eppure, anche se correggessimo il conteggio delle emissioni in base al consumo e non alla produzione otterremmo comunque che la Cina è l’economia a maggior intensità d’inquinamento del mondo.

La Cina non gioca di squadra

Se alla Cina sottraessimo le emissioni legate alle esportazioni, il conteggio della CO2 diminuirebbe del 9,2%, che comunque manterrebbe la Cina sulla vetta del podio – e con un significativo distacco sull’inseguitore americano. Di par suo, le emissioni americane corrette per le importazioni (visto che gli Stati Uniti sono in deficit commerciale) aumenterebbero del 7.2%.

Passiamo ora al refrain, ripetuto ossessivamente a cene e conferenze: la Cina è il paese leader nell’energia rinnovabili – e segue video di campi cinesi coltivati a pannelli solari e pale eoliche. Ora: è pur vero che la Cina è al primo posto al mondo negli investimenti rinnovabili, ma ciò non vale nulla se quasi il 70% della sua elettricità è prodotta da carbone. C’è di più: la quota rinnovabile è in incremento (dal 17,7% nel 2008 al 25,4% nel 2016), ma in termini assoluti la produzione da carbone aumenta, così come quella da altre energie fossili come petrolio e gas.

È un trucco propagandistico-contabile: si sostiene che il settore rinnovabile aumenti come percentuale, ma si trascura di ricordare che il carbone continui a salire in termini assoluti. In altri termini: nel 2008 il carbone contava per 2,7 milioni di GWh di produzione elettrica, mentre nel 2018 si era arrivati a quasi 9 milioni.

Ancora: negli anni di egli anni di grande investimento nelle rinnovabili in Occidente (2004-2011), ogni dodici mesi le emissioni cinesi aumentavano di circa 500 milioni di tonnellate, passando da un totale di 3,5 miliardi di tonnellate nel 2001 a 10 miliardi nel 2012. Se consideriamo che le emissioni totali italiane sono di 460 milioni di tonnellate, fa riflettere come tanti e costosi sforzi rinnovabili in Italia per una riduzione di piccole percentuali di emissioni venissero annientati dall’incremento cinese.

Da qui, se si volesse affrontare seriamente il problema delle emissioni, bisognerebbe guardare oltre casa nostra. Non è l’automobile che usiamo per andare a lavorare. Non è un viaggio aereo. È un sistema concepito e sviluppato su un modello carbonifero da prima industrializzazione, portato agli estremi economici. Un investimento anti-emissioni efficiente e sensato punterebbe alla chiusura del carbone cinese, più che del gas occidentale.

twitter: @stefcasertano

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Photo: © Pixabay CC0