L’ipocrisia italiana e i veri aiuti che Berlino ha dato ai club, senza però riaprirli

Puntare il dito e trovare nelle discoteche il capro espiatorio di ogni male dimostra l’incapacità del nostro sistema di pianificare e dare il giusto rispetto a un intero settore in sofferenza

Pur rispettando molto la club culture, che dà gioia a moltissime persone, lavoro a tante altre e che in alcuni paesi – Germania docet – gode di una legittimazione culturale importante, chi scrive non è mai stato un grande frequentatore di discoteche, né quando viveva a Berlino né, a maggior ragione, in questo periodo di pandemia, visto che sono oggettivamente luoghi più pericolosi di altri nella diffusione del contagio.

Ad ogni modo la demonizzazione delle discoteche in corso in queste ore in Italia mi pare l’ennesima puntata della ridicola e ipocrita ricerca di un capro espiatorio andata in scena sin da marzo nel nostro paese. A Berlino i club hanno chiuso il 14 marzo. Ognuno di essi, come qualsiasi azienda, ha potuto chiedere subito un finanziamento di 5mila euro dalla città più uno da 9mila euro dal governo federale se aveva un massimo di 5 dipendenti, altrimenti un credito di diverse migliaia di euro per coprire spese e lavoratori. Inoltre, a metà luglio, l’amministrazione comunale ha stanziato un secondo aiuto, ben 81 milioni di euro da dividere tra club, sale da concerti e festival culturali. Non sarà mai abbastanza, ma si tratta comunque di sussidi economici molto consistenti, di quelli che hanno un peso sul bilancio di ogni discoteca. Nonostante tutte queste misure, al Senato di Berlino (il consiglio municipale cittadino) si continua a discutere su come supportare i club ancora di più. C’è solo un’opzione che non è mai stata presa in considerazione: riaprirli con la consapevolezza di doverli probabilmente richiudere da un momento all’altro. Del resto, un atteggiamento del genere avrebbe significato e significherebbe tuttora mandare all’aria i piani di tutti quei gestori di locali virtuosi (e sono tanti) che hanno investito tempo e denaro per trasformare i loro club in bar, Biergarten e gallerie per esposizioni temporanee. Il Berghain è già alla seconda mostra (con eco mediatica internazionale) in due mesi, al Renate ogni domenica si beve birra come se si fosse in un giardino bavarese, al Club der Visionäre si passano i pomeriggi di sole bevendo Club Mate e Fritz-kola come in un bar sul lago.

In Italia invece si sono riaperti e richiusi i club per dare un colpo al cerchio degli imprenditori e uno alla botte dell’opinione pubblica preoccupata. Nella fase di riapertura, com’era prevedibile, la gente è andata a ballare in massa visto che era lecito farlo, che si veniva da mesi di quarantena, e che dunque c’era ancora più voglia di vivere e di socializzare in queste notti di mezza estate. Che senso ha, pertanto, scatenare ora la santa inquisizione appellandosi, col ditino alzato da moralisti e con notevole farisaismo, alla «responsabilità dei giovani»? In un’emergenza del genere, un governo serio le discoteche non avrebbe proprio dovuto riaprirle, garantendo nel frattempo adeguati indennizzi a tutti gli operatori del settore (e non solo ai proprietari, che hanno maggiori possibilità di cadere in piedi rispetto ai dipendenti e ai precari dell’industria del divertimento).

Peraltro, in questa assurda lotta al Covid “a targhe alterne”, proprio ieri è ripartita da Genova la prima mega crociera MSC con circa 1500 persone a bordo, mentre in tutta Italia la gente si accalca nei ristoranti, nei bar, nei lidi, sui lungomari, nei luoghi di lavoro e su mezzi pubblici mai riorganizzati e potenziati, e se chiedi un tampone preventivo generalmente l’ASL ti ride in faccia o ti fa fare file talmente lunghe che probabilmente l’infezione la contrai nell’attesa.

Quelle appena elencate sono forse eventualità di contagio più rispettabili perché implicano fatica e sofferenza? O forse perché, anche quando ci si diverte, ad esempio mangiando cozze in una sala di ristorante colma di persone, si tratta di un divertimento più tradizionale e morigerato, senza cubiste e musica del demonio?

Ammettiamolo: la chiusura delle discoteche, per giunta dopo Ferragosto, non è stata una misura anti-Covid, ma un contentino per tutti i risentiti e i conformisti, per tutti quelli che non abbandonano mai la superstizione magico-cattolica secondo cui, se ci si sacrifica e si rinuncia al piacere, le cose andranno automaticamente bene; per tutti quelli, infine, che sono iscritti al partito trasversale del «non ce n’è coviddi» ma poi riscoprono il virus solo quando si parla di giovani che si divertono o di disperati che cercano approdo dopo un’odissea in mare.

In fondo a noi italiani sta bene così: perché mai affidarsi alla razionalità illuministica, alla scienza medica ed epidemiologica, alla statistica, alla lungimiranza politica, al semplice buon senso, quando le crociate contro gli albigesi e i roghi di streghe fanno contente tanto la classe dirigente quanto l’opinione pubblica?

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Photo: Unsplash CC 0