“La città senza derby”: il calcio berlinese nel libro di Damiano Benzoni. Intervista all’autore

Un viaggio nella storia e nella mutevolezza del calcio berlinese attraverso tutte le sue categorie, dalla Bundesliga al Freizeit

Damiano Benzoni, giornalista e fotografo sportivo, ha vissuto a Berlino per cinque anni (dal 2019 al 2024). In questo periodo ha avuto l’opportunità di immergersi nel complesso mondo del calcio berlinese, decidendo di raccontare le esperienze vissute e le storie apprese nel volume “La città senza derby. Mappa emotiva del calcio berlinese”, pubblicato a fine aprile da Urbone Publishing. Nel libro è presente anche un ricco inserto fotografico direttamente curato dall’autore.

Abbiamo avuto l’occasione di porre all’autore alcune domande sui principali snodi affrontati all’interno del volume. Segnaliamo inoltre che il 28 giugno Benzoni tornerà a Berlino per presentare “La città senza derby”: l’evento si svolgerà alle ore 18 presso la birreria Birra a Prenzlauer Berg.

Nel suo libro affronta la realtà del calcio berlinese in tutte le sue sfaccettature e complessità. Perché secondo lei una città come Berlino non è mai riuscita ad imporsi come un punto di riferimento nel panorama calcistico europeo?

Chiunque abbia vissuto un po’ a Berlino si è reso conto che molto spesso in questa città le cose non vanno come dovrebbero. È una città che si porta addosso il peso della storia, in particolare della divisione: se da una parte questa l’ha fatta divenire un simbolo ideologico, dall’altra ha anche determinato parecchie difficoltà anche semplicemente “logistiche”, motivo per cui, banalmente, servivano più soldi per convincere un campione a giocare a Berlino Ovest rispetto ad altre città. Per questa e per altre ragioni Berlino non è mai stata una città ricca, e questo ha portato a una grande instabilità nei progetti, nonostante l’ambizione non mancasse, visto che è una città che si è sempre sentita importante. E così anche la storia del calcio berlinese è punteggiata di castelli in aria, di progetti vanagloriosi poi terminati in fallimenti spettacolari.

In maniera particolare si è concentrato sul rapporto fra Herta e Union Berlino, le due squadre più importanti della capitale. Quali sono le differenze principali fra queste due realtà? Per quali motivi non si può parlare di un vero e proprio derby?

Ho chiamato il libro “La città senza derby” perché, nonostante il grande numero di squadre, non mi sembra che ci sia una rivalità che attualmente possa definirsi veramente tale. Dynamo e Union hanno un odio storico legato al vecchio campionato della DDR, ma non si incontrano più da diversi anni. Al contrario, Hertha e Union ora sono le due squadre più forti, ma non c’è uno storico di partite tale da poterla considerare una vera e propria rivalità, in particolare ai massimi livelli: le due squadre si sono incontrate poco più di una dozzina di volte.

Sul rapporto tra le due, credo che questo aspetto del calcio berlinese stia vivendo un momento di transizione piuttosto grosso: se in passato c’era la cosiddetta “Freundschaft hinter Stacheldraht”, l’amicizia oltre il filo spinato dovuta a una solidarietà tra i tifosi dei due club per via della presenza del Muro, ora ci sono i germi di una rivalità, che credo sia dovuta soprattutto al nuovo ruolo che si trova a occupare l’Union dopo la sua vertiginosa ascesa. Una squadra che era solita identificarsi più con il quartiere di Köpenick che con l’intera città (o anche solo con la vecchia Berlino Est) si è trasformata per risultati nella prima squadra di Berlino, ed è stata una crisi di identità per entrambe le squadre.

Quali sono le altre realtà meno conosciute che hanno scritto alcune pagine importanti della storia del calcio berlinese?

Non si può non parlare delle altre tre squadre di Berlino Ovest che hanno raggiunto la Bundesliga: il Blau-Weiß, il Tennis Borussia e soprattutto il Tasmania: questi ultimi sono l’epitome del fallimento in salsa berlinese di cui parlavo. Siamo nei primi anni della Bundesliga, l’Hertha è stata penalizzata perché offriva ingaggi illegali sottobanco ai giocatori, ma per motivi ideologici nella Germania divisa è imperativo che ci sia almeno una squadra di Berlino Ovest. Alla fine la scelta ricade sul Tasmania – nemmeno la più forte tra le potenziali candidate – e inizia una missione suicida che porterà la squadra di Neukölln a stabilire una serie di record negativi che resiste tuttora e a fallire qualche anno più tardi. Ora è una squadra di quartiere che milita in quinta divisione e la sua tifoseria va tuttora molto orgogliosa di quei record.

Per la parte Est ovviamente la Dynamo è la squadra con più storia, una squadra capace negli anni ’80 di vincere 10 titoli del campionato della DDR di seguito; titoli su cui però penderà sempre l’ombra del fatto di essere la squadra della Stasi, una squadra di regime a cui era permesso cannibalizzare il sistema calcistico. Ci sono però anche realtà più piccole che vale la pena citare: tra le tante squadre di origine migratoria o etnica credo valga la pena citare il Türkiyemspor, una squadra che arrivò solo a sfiorare la 2. Bundesliga, ma che divenne un punto di riferimento non solo per la comunità turca, e che vanta tuttora di essere la società sportiva di migrazione con più tesserati in tutta Europa.

Quanto è sentito il tifo a Berlino? Come quantificherebbe il peso che la politica assume all’interno di questo mondo?

Il tifo è piuttosto sentito a Berlino – mi è capitato di vedere gare con 500 spettatori anche in divisioni infime – ma forse in modi diversi dal resto della Germania. Per intenderci, l’unico stadio in cui veramente ho sentito tensione e visto scontri è stato lo Sportsforum Hohenschönhausen, dove gioca la Dynamo. E su questa squadra potremmo aprire una parentesi enorme dal punto di vista politico, visto che oltre al suo legame con la Stasi è nota soprattutto per avere un seguito di estrema destra, come molte delle squadre della vecchia DDR. Non è però un aspetto totalmente monolitico o privo di contraddizioni, e credo sia interessante vedere questo fenomeno, così come l’ascesa della destra nella ex Germania Est, in maniera più sfaccettata e meno semplicistica.

Ci sono però tante squadre che hanno una forte identità politica anche nell’altro senso: penso soprattutto al Tennis Borussia, squadra dove, in seguito a un fallimento, molti tifosi riuscirono a occupare posizioni decisionali all’interno della società, plasmandone l’identità e rendendola un luogo aperto e inclusivo, dall’identità fortemente antirazzista, antisessista e antiomofoba. Un meccanismo simile a quanto è avvenuto a un tiro di schioppo da Berlino al Babelsberg, altra squadra spinta da ideali simili.

Anche però nel piccolo delle categorie inferiori ci sono diverse squadre che si impegnano a livello sociale per il quartiere e che hanno identità politiche molto forti e spostate a sinistra: mi vengono in mente l’Hansa 07 di Kreuzberg o il Polar Pinguin di Tempelhof-Schöneberg.

Quali differenze ha notato rispetto all’Italia nel modo di vivere il calcio?

Credo che ci sia un aspetto principale: il calcio in Germania è ancora trattato come un evento che non è prima di tutto televisivo. È un qualcosa che è prima di tutto pensato per essere vissuto dal vivo. Questo si ripercuote sui prezzi dei biglietti e sulla partecipazione del pubblico. In parte è un fattore che ha le sue radici nella Vereinskultur, la cultura associativa, che è l’altra grande differenza nel modo di vivere il calcio rispetto alla Germania.

Si parla molto della regola del 50+1, che vuol dire che la maggioranza delle quote decisionali di una società sportiva devono essere controllate dal club. E quindi dai soci, che sono fondamentalmente i tifosi della squadra. Questo vuol dire anche che i sostenitori si sentono coinvolti in maniera più attiva nella vita del club, anche ai livelli più alti, e hanno maggior voce in capitolo, maggior considerazione e maggiore motivazione a partecipare attivamente. Pensiamo all’Hertha che ha avuto un presidente, Kay Bernstein, che vent’anni prima era un capoultrà, oppure pensiamo al fatto che tematiche come la protesta dei tifosi contro l’ingresso di un investitore esterno nella Bundesliga sia stata dibattuta in prima serata in televisione e sia stata una protesta coordinata tra tutti i gruppi di tifosi, oltre le rivalità, e capace di far desistere la DFL dal suo progetto.

Come è nata l’idea di scrivere questo libro? Con quali nuovi orizzonti si è potuto confrontare in quest’esperienza di ricerca?

Sono un giornalista sportivo e mi sono trasferito a Berlino nel 2019 per curare il canale YouTube in italiano della app di notizie di calcio OneFootball. Da subito sono rimasto affascinato dalla scena calcistica berlinese, dal numero di squadre e di storie che incontravo e leggevo. È stato anche un periodo in cui mi sono ri-appassionato alla fotografia e ho cominciato semplicemente a girare per i campi di calcio e gli stadi di Berlino, macchina fotografica alla mano, a scoprire nuove squadre, a parlare con la gente e imparare nuove storie.

Ho visto circa 90 partite di 75 squadre diverse tra Berlino e Potsdam, ho scartabellato in vecchie edizioni di fanzine oppure del settimanale Fußball-Woche, mi sono perso alla ricerca di informazioni. Alla fine ho pensato che ci fossero abbastanza storie non così tanto conosciute e meritevoli di essere raccontate, e diverse foto da pubblicare (il libro ha un inserto fotografico di 16 pagine). Dal punto di vista personale ho voluto anche chiudere il cerchio con la mia esperienza berlinese, che si è conclusa nel settembre 2024, dedicando questo lavoro alla cosa che – a parte gli amici – più mi manca di questa città, ovvero il suo calcio.

 

Leggi anche: La storia dell’Hertha Berlin, la storica squadra di Berlino Ovest

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