Io, che non sono mai stato ad Auschwitz

Oggi, 27 gennaio 2015, ricorrono i 70 anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz.

Ad Auschwitz non ci sono mai stato.

testo e vignetta di Davide Ceccon

Non sono mai stato ad Auschwitz, però andarci è un dovere morale come per un musulmano andare alla Mecca, dunque ci andrò senza essere ebreo, senza essere cristiano, fascista, nazista, razzista, comunista o chissà cosa altro. Sento che sarò là e basta. Presto.

Ci sono stato attraverso i libri, i documentari, e la televisione, decine e decine di volte. A Berlino ho cercato i luoghi della deportazione e della violenza. Ho trovato targhe in ottone incastonate davanti alle porte di certe case, da dove ebrei o persone erano state strappate alla dignità e alla vita. Rispetto al dramma, alla immane sofferenza ed al numero dei morti, a Berlino resta poco. I segni delle atrocità sono rari, sparuti, nascosti. Per quanto poi si tenti di essere “ebreo perseguitato”, non ci si riesce.

A Berlino ero in vacanza, andavo a caccia di fotografie, di scorci, di visi, con la pancia piena di cibo buonissimo e una birra meravigliosa. Solo questo non concede alcuna possibilità diventare un deportato, un ratto, un omosessuale, uno zingaro o un dissidente politico, o avere una vita non degna di essere vissuta. Mi sono ricordato di quando arrivai in una caserma italiana squallida e gelata, che aveva fama di essere luogo per una vita militare durissima. Strappato alla mia vita di studente, dalla Milano degli anni 80. Quando ci arrivai e vidi gli androni delle camerate, i soffitti alti sette metri, un odore di sudore denso come la gelatina e migliaia di ragazzi da incorporare, provai terrore e paura. Una paura sorda, durissima che mordeva lo stomaco come uno squalo. Avevo 19 anni ed ero in una caserma a Ravenna, in tempo di pace ad assolvere gli obblighi di leva. Era marzo e non c’era la neve, non pastori tedeschi, non ordini in tedesco, non kapò polacchi e hustascia, non fumi nauseabondi di carne arrostita nei piazzali.
Il mio amico Mauro era pallido, io battevo i denti. Ho avuto paura, una grande paura durata giorni e notti. Protetto dallo stato, ricevevo 1000 lire al giorno, si mangiava molto e discretamente, in una caserma vicino al mare e alle diciotto, ero in spiaggia in libera uscita. Eppure mentre cerco di immaginare di essere deportato, ho come riferimento emotivo solo quel viaggio verso una caserma italiana. Non era la risiera di San Sabba o il campo Fossoli, né altro. Nessuno morì soffocato in un vagone, nessuno defecò sul corpo di un altro spirando, nessuno leccò la condensa sui bulloni dei carri bestiame per bere, nessuno morì di stenti e di terrore, nessuno arrivando venne separato dai figli dalla moglie…o abbattuto con un colpo di pistola perchè era lento a scendere dal vagone, nessuno infine venne selezionato per morire in una camera a gas.

Eravamo solo ragazzi in tempo di pace.

Eppure tutte quelle morti e tutto quel terrore, tutte le urla , tutti i guaiti dei cani aizzati contro i genitali dei deportati, tutto il freddo, la fame, la dissenteria , il tifo e la peste petecchiale, l’annientamento della dignità e dell’umanità, tutto ciò che è stato in quei giorni degli anni 40/45, in tutti i campi del nazismo, 15000 pare, senza contare i piccoli campi locali per le detenzioni ordinarie, sono il patrimonio delle nostre vite, della mia che non è stata testimone se non dei racconti di chi si salvò da un mondo divenuto una macelleria. Scrivo perchè avendo letto molto e cercato di capire, non capisco e non so, scrivo perchè non c’ero e non esserci stato mi fa dire che c’ero comunque e che ci si siamo stati tutti, senza poterlo evitare e senza volerlo. Scrivo perchè come uomo porto il peso di ciò che non ho fatto, porto non già l’onta della fiaba del peccato originale, ma questa macchia orrenda dello sterminio di massa. La porto, come la portiamo tutti, consapevoli o inconsapevoli, rei o innocenti e più di tutti la portano coloro che negano l’esistenza dei campi e dei milioni di morti, datosi che sono gli stessi che vorrebbero che tutto ciò che ora commemoriamo, si ripetesse. Forse costoro pensano che la memoria per essere vivida e tale, non deve diluirsi troppo, nel tempo.

Io invece scrivo perché non c’ero e mi ricordo bene, tutto.

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