Crisi Volkswagen: chiude anche un impianto in Cina

Volkswagen chiude il suo controverso stabilimento nello Xinjiang, da anni nel mirino internazionale per sfruttamento e violazione dei diritti umani 

Volkswagen chiude in Cina, ha ufficialmente annunciato la vendita del suo stabilimento situato nella regione cinese dello Xinjiang. L’acquirente è la Shanghai Motor Vehicle Inspection Certification (SMVIC), di proprietà statale.

Sebbene Volkswagen abbia dichiarato che la decisione sia motivata da ragioni puramente economiche, dietro la cessione si intravedono anche chiare questioni legate alla reputazione del marchio. Negli ultimi anni, infatti, vari investitori e attivisti hanno intensificato la pressione sul gruppo affinché cessasse le sue attività nella regione. Questo perchè lo stabilimento interessato è da anni al centro di numerose accuse per violazioni dei diritti umani a scapito dell’etnia dei uiguiri.

Parallelamente, Volkswagen sta lavorando per rafforzare la sua presenza in Cina e rilanciarsi, puntando su collaborazioni strategiche con partner locali come Xpeng e prolungando la partnership con SAIC fino al 2040. Il colosso automobilistico spera quindi che queste mosse strategiche possano invertire il trend negativo e consolidare la sua presenza in Cina, in attesa di conoscere la sorte degli stabilimenti in Germania. 

Volkswagen chiude: le ragioni economiche ma soprattutto reputazionali

“L’uscita di Volkswagen dallo Xinjiang è stata un passo atteso da tempo, che ha dimostrato che i diritti umani non sono negoziabili”.Ha dichiarato Janne Wening, di Volkswagen Union Investment, che da tempo, insieme ad altri investitori, ha esercitato varie pressioni sulla casa automobilistica per la cessazione dell’attività nella regione.

Risulta quindi evidente che le ragioni della chiusura vadano oltre gli aspetti economici ed abbraccino altre questioni di tipo reputazionale, finalizzate a contenere ulteriori possibili danni per il gruppo che si trova già in un momento critico. Volkswagen sta infatti fronteggiando sia un piano di ristrutturazione da migliaia di licenziamenti con la chiusura di stabilimenti in Germania, sia le tensioni commerciali tra Pechino e Bruxelles sui dazi per le auto elettriche importate. A ciò si aggiunge la necessità di conformarsi al Regolamento europeo sul lavoro forzato, che ha posto ulteriori ostacoli alle operazioni della casa automobilistica nella regione cinese.

Seconda l’azionista Deka Investment, la chiusura dello stabilimento avrà un impatto finanziario minimo. L’impianto, inaugurato nel 2013, aveva perso rilevanza negli ultimi anni. Con soli 200 dipendenti impiegati nelle attività di controllo qualità finale e nella consegna dei veicoli ai concessionari locali. In aggiunta, tempo prima, i dirigenti VW hanno sempre ribadito di non voler lasciare la regione prima della scadenza dell’accordo esistente con Saic fino al 2029. Perchè avrebbe danneggiato i suoi rapporti con il partner cinese, sostenuto dallo Stato.

Tutto suggerisce quindi che la decisione non risponda solo a logiche economiche, ma anche a una gestione più ampia dei rischi legati alla reputazione e all’immagine del gruppo.

Gli abusi nello stabilimento di Xinjiang

La chiusura dello stabilimento di Xinjiang segna una vittoria importante per le associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana uigura. La regione è da tempo accusata di violazione di diritti umani, più volte denunciati da ONG e governi occidentali. Secondo le denunce è infatti teatro di abusi sistematici ormai da tempo. Centinaia di migliaia di uiguri e altri musulmani sono stati detenuti nella regione dal 2017 al 2019: sottoposti a torture, lavoro forzato e indottrinamento politico.

Sebbene Pechino continui a respingere tali accuse, le pressioni degli investitori su Volkswagen per interrompere le operazioni nella regione sono notevolmente aumentate negli ultimi anni. Un report dello scorso maggio del senato americano aveva già chiesto a Volkswagen di cessare le attività nello Xinjiang, dove il governo degli Stati Uniti ha stabilito che “il Partito Comunista Cinese sta attuando un genocidio contro gli uiguri e altre minoranze etniche”.

Ne era seguito un audit da parte di Volkswagen teso ad accertare il rispetto dei diritti umani nell’impianto, che aveva escluso l’impiego di lavoratori forzati. Secondo il Financial Times, però, non era stato condotto in linea con gli standard internazionali, perché i dipendenti non erano stati intervistati con le dovute garanzie di riservatezza e protezione da eventuali ritorsioni.

Le interviste, svolte presso lo stabilimento interessato, sono state trasmesse in diretta streaming alla sede centrale dello studio legale a Shenzhen. “La trasmissione in diretta ha messo i lavoratori in una situazione che era intimidatoria e non garantiva la riservatezza. Le interviste non hanno alcun valore e non possono essere utilizzate come conferma della situazione in fabbrica”. Ha detto Judy Gerhart, professoressa presso School of International Service dell’American University, nonchè contribuente attiva allo sviluppo delle norme SA8000

Le partnership di VW per riconquistare il mercato cinese

La Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen, in cui genera almeno la metà dei suoi profitti complessivi.

Per rilanciare il marchio nel paese, Volkswagen ha stretto collaborazioni strategiche con partner locali come Xpeng, per sviluppare nuovi modelli elettrici o ibridi entro il 2030. Parallelamente, ha esteso la partnership con Saic fino al 2040, pianificando il lancio di 18 nuovi modelli entro la fine del decennio.

In attesa di conoscere la sorte degli stabilimenti in Germania, l’obiettivo è quello di tornare a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili l’anno, riconquistando una quota di mercato del 15%. Così facendo, l’intento è di invertire trend negativo e riconquistare terreno in un mercato dove, ad oggi, ha già perso la storica leadership, in favore del concorrente cinese BYD.

 

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