In tutte le scuole danesi si insegna l’empatia e di mezzo ci sono le torte

In Danimarca l’empatia è materia scolastica. Lo scopo è quello di formare adulti più consapevoli, ma soprattutto felici

Si chiama Klassens tid, l’esperimento sociale che sta spopolando negli istituti primari danesi. Durante questa “ora di classe” i bambini vengono educati ad ascoltare gli altri, approcciarsi ai problemi in maniera più sana e costruttiva, e a maturare un forte spirito di gruppo. Il tutto mentre mangiano una fetta di torta al cioccolato, preparata con le loro stesse mani. Un’esperienza che può rivelarsi utile sia a studenti che insegnanti, poiché costituisce una barriera efficace ai sempre più frequenti fenomeni di bullismo.

Klassens tid

Klassens tid è stata introdotta nei programmi di studio danesi già nel 1870. Tuttavia, soltanto a partire dal 2016 quest’ora di educazione sociale ha cominciato a essere legata al concetto di “empatia”, intesa come capacità di immedesimarsi nello stato d’animo dell’altro, partecipare alle sue passioni, siano esse positive o negative. Non a caso “empatia” deriva dal greco empatéia, a sua volta composto da en (dentro) e pàthos (sofferenza o sentimento); il significato etimologico, dunque, è “sentire dentro”. Il vocabolo veniva utilizzato per indicare il rapporto emozionale che si stabiliva tra lo spettatore del teatro greco e l’attore, un legame che presupponeva un’assimilazione completa del primo al secondo, e – nel caso delle rappresentazioni tragiche – la catarsi finale. Col tempo il termine è stato usato in maniera indiscriminata nella medicina, nelle scienze sociali, così come nell’arte e nella psicoterapia, mantenendo in ogni caso la sua originaria connotazione filantropica. Le modalità di svolgimento di Klassens tid sono intuitive quanto efficaci: i bambini preparano a turno una torta al cioccolato (il cacao non a caso è un anti-depressivo naturale) e sono invitati a esporre al resto della classe problemi, preoccupazioni o semplicemente uno spaccato del proprio vissuto. L’empatia viene insegnata in tutti gli istituti danesi un’ora a settimana, dai 6 ai 16 anni di età, e si sta rivelando un esperimento sociale di grande impatto, per ridurre i casi di bullismo e formare adulti più consapevoli e felici.

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L’empatia – come l’intelligenza emotiva – si impara

Al contrario di ciò che si possa pensare, l’empatia non è una condizione innata ma una qualità dello spirito che può essere appresa, esercitata e allenata. Strettamente correlato all’empatia è il concetto di “intelligenza emotiva”, inteso quest’ultimo come capacità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione, non solo a livello istintuale, ma anche razionale. Essere intelligenti emotivamente significa perciò riconoscere le proprie e altrui emozioni, saperle gestire, e stabilire quindi relazioni positive con i restanti membri della comunità. L’intelligenza emozionale consta di due tipi di competenze: quelle personali (consapevolezza di sé, capacità di adeguarsi ai cambiamenti e di affrontare le sfide della vita, nonché di dominare le passioni deleterie) e sociali; queste ultime non sarebbero possibili senza appunto l’empatia. È chiaro che l’abilità di instaurare legami appaganti dipenda in gran parte dal proprio vissuto: un bambino cresciuto in un contesto famigliare sano, in cui proliferano sentimenti positivi, come gentilezza, affetto e fiducia, si sentirà un individuo “degno di amore” e sarà portato in futuro a relazionarsi in maniera più soddisfacente in ogni ambito della vita comunitaria. Tuttavia, niente è perduto. In fondo non esiste nulla nella vita che non si possa imparare. Nathaniel Branden, psicoterapeuta americano nonché pioniere nei campi dell’autostima e dell’accettazione di sé, fa riferimento nel suo celebre libro “I sei pilastri dell’autostima” (1994) a una curiosa categoria di individui: quelli che, nonostante abbiano avuto un’infanzia difficile e a tratti traumatica, sono in grado di guardare alla vita con tenacia ed entusiasmo, tanto da fregiarsi del titolo di “indistruttibili”.

Emotional Intelligence di Goleman, un libro illuminante

Perché esistono persone intelligenti – almeno nel senso tradizionale del termine – che tuttavia in molte situazioni di vita quotidiana si rivelano … stupide? Perché alcuni bambini svegli e brillanti non riescono a ottenere buoni risultati scolastici? Per quale motivo un manager, preparato e colto, è incapace di piazzarsi con successo sul mercato e realizzare profitti soddisfacenti? Sono queste le domande da cui parte Goleman nel suo celebre libro – diventato bestseller – “L’intelligenza emotiva, che cos’è e perché può renderci felici” (1995). La risposta è semplice: il quoziente intellettivo non basta. Sono invece necessarie altre qualità, quali autocontrollo, pervicacia, attenzione agli altri, empatia. In breve, intelligenza emotiva. Il libro ha scardinato molte delle convinzioni tradizionali. Ad esempio, per anni si è creduto che le gerarchie aziendali dovessero essere guidate da dirigenti che incarnano le stereotipo del capo manipolatore e prepotente. Autoritario … più che autorevole. Niente di più sbagliato. Un buon leader, al contrario, deve essere in grado di favorire la cooperazione in un ambiente lavorativo positivo e disteso. I dipendenti a loro volta saranno più propensi a supportarsi e a rispondere favorevolmente ai comandi. Il risultato è un aumento esponenziale della produttività. Un ottimo capo, insomma, non sarà mai bossy.

Il quoziente intellettivo non mette al riparo dai fallimenti della vita

Già nell’ultimo decennio del ventesimo secolo lo psicologo statunitense Gardner si era reso conto che il significato tradizionale di intelligenza fosse riduttivo. A suo dire, l’intelligenza non può essere vista come un fattore unitario misurabile tramite il quoziente intellettivo. È, al contrario, qualcosa di molto più complesso. Pertanto Gardner ha individuato sette tipi di intelligenza: logico-matematica, linguistica, spaziale, corporeo-cinestetica, musicale, intrapersonale e interpersonale. Non è difficile supporre che le ultime due siano in un certo modo assimilabili al concetto di intelligenza emotiva. In seguito, sono state aggiunte altre due categorie: l’intelligenza naturalistica e quella esistenziale, quest’ultima relativa alla capacità di riflettere sull’esistenza e, più in generale, di esercitare il pensiero astratto. Va sottolineato, tuttavia, che essere sviluppati sotto il profilo emotivo non fornisce un lasciapassare per la felicità, ma garantisce in ogni caso un rapporto più sano con le proprie emozioni.

I giovani di oggi sono più depressi

Secondo uno studio dell’Università del Michigan svolto su un campione di circa 14 mila studenti universitari, i ragazzi di oggi hanno un tasso di empatia inferiore del 40% rispetto ai giovani degli anni Ottanta e Novanta. La conseguenza, o la causa, è un aumento rilevante di disturbi mentali e depressione. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la società odierna sia molto più narcisistica e autoreferenziale di un tempo, complice l’utilizzo dei social network, non più concepiti come piattaforma di condivisione e di informazione, quanto veri e propri “portfolio” straripanti di contenuti legati alla propria immagine.

I migliori sistemi educativi al mondo

Non solo la Danimarca ha deciso di adottare sistemi di educativi particolarmente efficaci. L’Estonia ad esempio ha introdotto un programma fuori dal comune. Si chiama ProgeTiger ed è stato creato per trasmettere i fondamenti della programmazione informatica a tutti i livelli, dalla scuola dell’infanzia ai corsi di formazione per adulti. Non meno interessante è il metodo finlandese centrato su un rapporto collaborativo tra i docenti e i discenti: questi ultimi possono scegliere liberamente un tema che sarà poi il fulcro del programma di studio personalizzato. Inoltre non esistono né voti né esami, escamotage intelligente per eliminare una volta per tutto la competizione tra studenti. L’approccio svizzero è invece basato sul senso di responsabilità individuale: i bambini sono incoraggiati a svolgere da soli il percorso da casa a scuola, e viceversa, e devono prestare cura al materiale scolastico, in quanto quest’ultimo sarà distribuito ai ragazzi delle classi successive. Non mancano all’appello il Canada, che garantisce l’accesso gratuito al sistema scolastico a tutti i livelli, e il Singapore che offre un programma di formazione assistita a coloro che aspirano a diventare insegnanti.

I fallimenti sono le vere vittorie

Nella giungla della società odierna, tirarsi fuori dai meccanismi della competizione e del guadagno è l’unica forma di contestazione. Le teorie di Gardner e Goleman, solo per citare due dei grandi innovatori del pensiero occidentale, sono senza dubbio rivoluzionarie e hanno costituito per anni un punto di riferimento per coloro che vogliono avere “successo” nella vita, sia esso professionale, economico o sentimentale. Tuttavia, il mondo si rinnova con una velocità impressionante, e ogni giorno nascono nuove esigenze, nuovi modi di sentire la realtà. Quello che andrebbe insegnato nelle scuole non è soltanto osservare le proprie emozioni per rapportarsi in maniera costruttiva agli altri, e conquistare quindi il tanto agognato successo, ma imparare ad abbracciare l’insuccesso. “Insuccesso” non in prospettiva negativa, nel senso più denigratorio del termine, ma in quanto scelta autonoma. Non fallire, ma decidere di fallire, perché vincere in alcuni casi significa scendere a compromessi poco pregevoli sul piano etico, sposare la nevrosi del lavoro gratificante a tutti i costi, del titolo professionale, dell’appagamento sentimentale. Chi decide liberamente di fallire non è meno determinato di chi impiega tutte le proprie forze per ottenere il posto di lavoro o il partner dei sogni. Tutta una letteratura è sorta intorno alla figura del perdente, dell’inetto. Quasi tutti gli artisti lo sono stati. A dimostrazione che le cose più belle – l’arte, la musica, la poesia – non sarebbero mai nate senza appunto il fallimento, o meglio il coraggio di fallire.

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Immagine di copertina: © Pixabay CC0