Luisa Catucci: “La mia galleria d’arte: a Berlino tante sfide, ma la città e la scena artistica stanno cambiando”

Luisa Catucci è la curatrice dell’omonima galleria d’arte contemporanea berlinese.

Fondatrice dell’eponima Luisa Catucci Gallery, vincitrice del Premio Mannozzi 2023, riconoscimento dato alla personalità italiana a Berlino che più si è distinta nell’ultimo anno per meriti artistici o imprenditoriali, Luisa Catucci è l’unica gallerista d’arte (donna) italiana a Berlino. Ci sono altre, poche gallerie italiane, ma nessuna fondata e gestita da una donna. Il discorso però si può allargare a tutta la comunità italiana a Berlino: ci sono poche persone che fanno impresa e cioè mettono su una struttura con assunzioni di personale, affitti etc., almeno se si escludono la ristorazione e la gastronomia in generale. E, molte di loro sono donne. «In una situazione avventurosa come quella di lanciarsi all’estero ci sta che siano più donne che uomini ad avviare una realtà imprenditoriale. Nelle donne della mia generazione c’è voglia di dare prova di competenza, visto che siamo le prime ad essere cresciute in una società più equiparata. Le donne hanno il talento di pensare fuori dalla scatola e Berlino dava la possibilità di creare cose in maniera trasversale. Secondo me la donna si trova più a suo agio rispetto all’uomo che forse è meno abituato al rischio».

Luisa Catucci alla consegna del Premio Mannozzi

Luisa Catucci alla consegna del Premio Mannozzi

Basta scambiare qualche parola con lei per rendersi conto che ad aiutarla in questa importante attività c’è una personalità piena di vita, forte, vibrante, un’esplosione di pensieri ed idee che chiaramente non poteva essere imprigionata in nessuna struttura che non sia a sua immagine e somiglianza. Luisa Catucci è una personalità artistica senza essere artista. E cosa meglio di una galleria d’arte per uno spirito come il suo? x

A febbraio scorso la Süddeutsche Zeitung le ha dedicato un ampio spazio sul reportage dedicato a come il quartiere di Neukölln stia cambiando volto. La sua galleria, su Allerstraße, una delle vie dello Schillerkiez (per chi non lo sapesse il kiez è una parte più piccola di un quartiere), ovvero quella parte di Neukölln un po’ più borghese del resto della zona, tanto bella nei palazzi e nelle vie quanto comunque ancora testimone di una storia multietnica, rappresenta tuttora un’eccezione per marciapiedi abituati a riflettere vetrine soprattutto di bar e ristoranti (anche alla moda ormai), späti e vecchi imbiss turchi.

 

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Lei ci ha scommesso nel 2017 e, complice una curatela di mostre sempre vivaci, mai scontate, ma non per questo spontanee, anzi oltremodo studiate sia nell’allestimento che degli artisti selezionati, sta finalmente raccogliendo popolarità e attenzione. «Per farsi vedere ognuno deve essere forte della sua unicità, non fare cose per cercare di piacere al grande pubblico. Per me questo non ha molto senso fare e poi è molto più interessante se uno è onesto con sé stesso. Bisogna cercare di capire la propria linea, gli argomenti, l’estetica, con la voglia di presentarsi e di difendersi, insomma fare forza dell’essere diversi. Personalmente se mi dovessi adattare al gusto tedesco sarebbe uno sforzo perché io sono una romana esplosiva ed è meglio se faccio pace con la mia realtà da romana, con il mio gusto particolare, solo così posso offrire una prospettiva differente».

Quali sono le tre sfide principali da affrontare per chi vuole aprire una galleria d’arte a Berlino?

«Prima di tutto il tedesco, perché anche se lavori in un ambito internazionale sei in Germania quindi devi riuscire a padroneggiare la lingua e la burocrazia tedesca, cosa che per me non è stata facile per parecchio tempo. L’altra cosa che bisogna sempre tenere in considerazione è che per avviare una galleria d’arte servono almeno una decina d’anni per costruirsi una rete, una clientela e un proprio giro d’artisti. La terza è che a Berlino le gallerie d’arte registrate sono più di 300 realtà quindi è importante farsi vedere, non essere una goccia nell’oceano».

l'articolo della Süddeutsche Zeitung

La storia di Luisa Catucci e della sua galleria

«Nel 2003 e non avevo idea di cosa fare. All’epoca la città era una meraviglia, vuota, economica, mi ha regalato il lusso del tempo e dello spazio, concetti che stiamo perdendo nella società contemporanea. Mi sono lasciata andare facendo scenografie di teatro, grafiche, mercatini. Per i primi cinque anni a Berlino ho potuto proprio giocare ed è stato meraviglioso. Avevo, però, bisogno di aggiungere concretezza al gioco e quindi ho aperto questo locale, così nel 2017 è nata la Luisa Catucci Gallery. Lavoro con artisti, creativi, ognuno ha il suo progetto e poi ci sono anche progetti collettivi. Nell’arco del tempo ho capito che mi interessava la cura della galleria e la linea che volevo difendere. Mi sono sentita onesta con me stessa».

I compiti del gallerista

«Il gallerista fa tutto, anche se poi dipende dal gallerista. Io personalmente adoro questo mestiere perché lascio libero il mio lato schizofrenico. Per cui un giorno scrivo, l’altro faccio grafica, online marketing, allestisco, disallestisco, scrivo il concept, cerco gli artisti, gli faccio da social media manager, pulisco anche la galleria. È meravigliosa la varietà per questo è un mestiere fantastico perché è vario ed ampio e mi dà davvero tanta gioia».

 

Il mercato dell’arte a Berlino ora

«È complicato in generale in tutta Europa per una serie di fattori: la pandemia, le guerre, le inflazioni, le tensioni politiche ovviamente non giocano un ruolo favorevole al mercato. Per di più Berlino ha una realtà molto particolare rispetto ad altre capitali perché ci sono tanti artisti e tante gallerie ma non così tanti collezionisti, per cui è un mercato particolarmente duro e combattivo. Però oggi siamo nell’era del digitale, quindi definire solo il mercato di Berlino mi sembra riduttivo visto che siamo automaticamente connessi a livello mondiale. Poi ci sono gli scambi con le realtà internazionali che, personalmente, ho sempre cercato di incentivare e realizzare».

 

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Il  rapporto di Berlino con gli artisti: una storia che sta cambiando

«Negli ultimi 20 anni, o forse anche di più dalla caduta del muro, è cambiato radicalmente. Prima gli artisti erano invitati a spostarsi a Berlino, con migrazioni di gente come non abbiamo mai visto in Europa. C’era da ripopolare la città, quindi lo stato tedesco offriva degli incentivi come agevolazioni fiscali ed il mancato obbligo di fare il militare. Questo ha fatto sì che in città arrivasse gente più “alternativa”, anche se è una parola che detesto. Forse meglio dire più creativa, più eclettica, forse anche più pazza. Infatti Berlino è una città con problemi sociali non indifferenti. Prima gli artisti erano davvero incentivati a spostarsi a Berlino con spazi e studi. Adesso è una città piena dove c’è un problema di spazi, di alloggi, gli studi per gli artisti sono stati ridotti, ma comunque ci sono diverse strutture ed opportunità maggiori ad esempio rispetto a Roma. Però la competizione è molto crudele. Mi dispiace dirlo ma a Berlino ci sono tanti artisti e non abbastanza talento. Dall’altro lato è anche bello che in alcuni periodi come questo ci sia gente che si dedichi ad un percorso creativo piuttosto che ad uno speculatore».

L’artista a Berlino e in Italia: un modo diverso di essere visto

«L’artista viene considerato in maniera diversa dall’Italia dove c’è la tendenza a paragonare l’idea dell’artista al divertimento e quindi non viene considerato un mestiere serio. In realtà nella maggior parte dei paesi nordici quello dell’artista viene riconosciuto come un vero e proprio lavoro che poi è un mestiere difficilissimo perché per essere un artista serio bisogna scavare nel profondo, avere la tecnica, essere onesti con se stessi, saper fare marketing, comunicazione. Devi saper fare tante cose con una concorrenza enorme e quindi diventa uno dei lavori più difficili al mondo. Non è un divertimento come lo identifica il cliché italiano. Un’altra differenza è che qui gli artisti si aspettano l’appoggio di istituzioni, fondazioni, finanziamenti. Sta cambiando la realtà anche qui in Germania ma in ogni modo c’è un rispetto che in Italia è difficile».

 

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