Crisi energetica: l’alternativa del carbone colombiano ha risvolti umanitari drammatici

L’UE cerca l’indipendenza economica dalla Russia, aumentando le importazioni di carbone da altri Paesi. La Colombia offre rifornimenti sicuri e a lungo termine con le miniere carbonifere presenti sul territorio, ma con condizioni umanitarie insostenibili

Nel mese di febbraio del 1970 alti politici e dirigenti del gas proveniente da Russia e Germania si riunirono ad Essen per celebrare la firma di un contratto per il primo grande gasdotto Russia-Germania, risultato di nove mesi di intense contrattazioni. La relazione sarebbe andata, agli occhi di tutti, a vantaggio di entrambe le parti: la Germania avrebbe fornito le macchine e i beni industriali di alta qualità, la Russia la materia prima per alimentare l’industria tedesca. Quella che era una nuova politica di riavvicinamento all’Unione Sovietica e di conseguenza alla Germania dell’Est, sarebbe diventata mezzo secolo dopo una pericolosa dipendenza energetica ed economica. Un accordo iniziato come un’apertura, si è trasformato oggi in uno strumento di ricatto, data la profonda dipendenza dall’energia di Mosca, dalla quale arrivava più della metà del gas naturale tedesco, circa un terzo di tutto il petrolio utilizzato, e la metà delle importazioni di carbone della Germania. Nei primi due mesi dopo l’inizio dell’assalto russo all’Ucraina, si stima che la Germania abbia pagato quasi 8,3 miliardi di euro per l’energia russa, denaro utilizzato da Mosca per sostenere il rublo e acquistare l’artiglieria impiegata contro le posizioni ucraine. Ma non è tutto: in quello stesso periodo le stime parlano chiaramente di un totale di 39 miliardi di euro pagati dai Paesi dell’Unione europea per l’energia russa, più del doppio della somma che gli stessi Paesi hanno versato per aiutare l’Ucraina a difendersi. Una dolorosa ironia.

La crisi energetica in Germania e in UE e l’affrancamento dalla Russia

Oggi dilaga fra le strade d’Europa il timore crescente di una crisi energetica causata dal bando all’import di carbone russo e il taglio dei rifornimenti di gas, con gravi conseguenze sull’economia tedesca e di conseguenza sui cittadini, soprattutto quando la domanda energetica aumenterà il prossimo inverno, con bollette e costi per consumatori e industria che incrementeranno notevolmente. Renderemo la Germania e l’Europa indipendenti dall’energia russa“. Ha dichiarato, nelle ultime settimane, il Cancelliere tedesco Olaf Scholz (SPD) al World economic forum di Davos. “Sul fronte del carbone in autunno sarà praticamente cosa fatta”. Infine, ad alleggerire ulteriormente il timore dei cittadini europei riguardo la crisi energetica, interviene anche il think tank Bruegel, gruppo di riflessione politico-economico internazionale con sede a Bruxelles, con l’osservazione che “se tutte le centrali a carbon fossile in Germania avessero funzionato a pieno regime nel 2021, avrebbero prodotto circa 140 TWh in più di elettricità”, concludendo che “il carbone russo può essere dunque sostituito, dal momento che i mercati globali sono ben forniti e flessibili” e possono quindi essere intrapresi nuovi legami per l’importazione di carbone.

Le recenti dichiarazioni del Cancelliere Scholz assicurano infatti, per l’immediato futuro, una più intensiva importazione di combustibili fossili dai Paesi del Terzo Mondo dell’America Latina, malgrado i preoccupanti risvolti ambientali e umanitari che gli abitanti del luogo devono sopportare, trovandosi ad affrontare ogni giorno minacce e disgrazie ben peggiori di una minore disponibilità di acqua calda o energia elettrica. 

Il carbone insanguinato della Colombia

La recente proposta del Cancelliere tedesco Scholz, alla quale tutte le potenze europee si stanno, chi più chi meno, comunemente uniformando, è, come noto, quella di intensificare l’importazione del carbone e combustibile da altri Paesi per sostituire completamente i rifornimenti russi. Il principale di questi Paesi è la Colombia, con le sue gigantesche miniere. Il Cerrejon è una delle più grandi miniere di carbone a cielo aperto al mondo, la più grande in America Latina, e la Colombia è il quinto esportatore mondiale di carbone, con quasi 90mila tonnellate nel 2018. La sola concessione del Cerrejon copre 690 chilometri quadrati, una superficie da cui il carbone viene estratto da giganteschi buchi scavati nel terreno e in cui lavorano giorno e notte esseri umani e ordigni meccanici.

Miniere simili si trovano poco più a Sud, nel vicino Cesar. I sei grandi pozzi del Cerrejon portano nomi di villaggi: c’è il pozzo Tabaco, il Manantial, il Caracolì. Sono le comunità indigene che si trovavano lì una volta e che vivevano di pascoli e agricoltura, nel Nord-Est del Paese, verso il confine con il Venezuela, dipartimento della Guajira, prima che venissero spazzate via e mangiate dalle scavatrici intorno agli anni Ottanta del secolo scorso, quando sono arrivate le compagnie minerarie. Con macabra ironia, il nome delle località trasferito ai pozzi è l’unico ricordo che rimane oggi di tutto ciò che i vecchi abitanti hanno perso.

L’azienda Cerrejon Coal è un consorzio di tre delle maggiori compagnie minerarie del pianeta, la svizzera Glencore, l’anglo-australiana Bhp Billiton e Anglo American, sudafricana. Nel 2000 il consorzio ha acquistato il 50% della concessione dal governo colombiano, e un paio d’anni dopo ha rilevato l’altro 50% da Intercor, sussidiaria della compagnia petrolifera Exxon. Nel frattempo l’azienda aveva avviato l’attività, cominciando già nel 2001 a far scomparire uno dopo l’altro i piccoli bei villaggi di agricoltori del popolo indigeno Wayùu, inghiottiti dalla nuova miniera. In tutto venti comunità sono state costrette a sfollare dalla concessione del Cerrejon, quindici di queste sono state del tutto cancellate dalla mappa.

Gli sfollati sono finiti ad arrangiarsi intorno ai capoluoghi rurali, a volte “risistemati” in case mal costruite con poca terra intorno, troppo poca per vivere dei suoi frutti. Altri, la maggior parte, sono finiti lungo la ferrovia che collega le miniere ai porti sulla costa del Caribe, da cui il carbone viene imbarcato per l’Asia, il Nord America e l’Europa. Spesso il bestiame domestico è travolto dai treni, a volte la stessa sorte tocca agli umani. La compagnia di solito se la cava con qualche piccolo risarcimento, che per la popolazione Wayùu suona, ovviamente, offensivo.

Ma questi sono solo gli antefatti della disgraziata situazione umanitaria causata dal carbone colombiano. Quello di cui ancora troppo poco si parla, sono gli effetti di anni di violenze e ingiustizie sulle persone, i fiumi disseccati, l’acqua contaminata, i paramilitari che si muovono liberamente nella regione disseminando morte e terrore. Di tutto ciò cerca di diffondere la consapevolezza, fra gli altri, Angelica Ortiz, la segretaria generale di Fuerza de mujeres Wayùu, un movimento nato nel 2005 per combattere la violenza e la devastazione sociale in cui è precipitata la zona. I racconti di Ortiz sono agghiaccianti. Particolarmente impellente è la questione dell’acqua. Lo scavo delle miniere ha stravolto l’equilibrio idrico: quattordici corsi d’acqua sono stati deviati o prosciugati. Ogni giorno nelle miniere ci sono esplosioni, “sentiamo la terra tremare e vediamo le fonti d’acqua seccarsi”. La poca acqua rimasta è per lo più contaminata, ha documentato uno studio dell’Università di Coblenza (Germania), “non si riesce più a coltivare né a pescare nei fiumi, l’economia locale è finita”. La malnutrizione insieme all’inquinamento idrico e atmosferico causano ogni anno un aumento vertiginoso della mortalità infantile, solo nell’ultimo anno cinquemila bambini hanno perso la vita nei territori circostanti la miniera. La morte precoce affligge ormai da decenni anche gli uomini indigeni, costretti, dopo l’annientamento degli originari villaggi, a procurare il minimo sostentamento alle loro famiglie lavorando nella miniera, con turni massacranti e sempre più malattie causate dal carbone inspirato e dagli stenti.

Il carbone ha portato una guerra strisciante nella regione del Guajira

Ma le disgrazie con cui queste persone sono costrette a convivere ogni giorno non finiscono quiTra il 1996 e il 2006 si contano 2.600 vittime di omicidi mirati, 500 persone uccise in eccidi collettivi e 240 scomparsi. Il carbone ha portato anche questo nella regione mineraria colombiana. A metà degli anni Novanta l’organizzazione paramilitare nota come Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) si è insediata nella Gujira e nel Cesar per proteggere allevatori e commercianti locali dalle Farc e dal Eln, storiche organizzazioni guerrigliere colombiane attirate dalle attività intraprese nelle miniere dalla compagnia mineraria statunitense Drummond.

Nei primi anni 2000 la violenza aveva raggiunto livelli inauditi: sbaragliate le Farc, l’articolazione locale della Auc ha attaccato in modo sistematico ogni presunto collaboratore dei guerriglieri, oltre a dedicarsi al furto di bestiame, saccheggi, torture e assassini incontrollati ai danni delle popolazioni locali. Molto più tardi, quando il comandante locale della Auc fu finalmente condannato per gli omicidi e le efferatezze compiuti, chiamò in causa la stessa compagnia mineraria, affermando che era stato l’allora responsabile per la sicurezza della Drummond ad autorizzare ogni mezzo necessario al fine di garantire l’ordine e il buon funzionamento della miniera. La compagnia declinò ogni responsabilità.

Ancora oggi le grosse multinazionali più attive sul suolo colombiano solo la statunitense Drummond e la svizzera Glencore, e il paramilitarismo ad esse presumibilmente legato è una piaga difficile da estirpare: gli eccidi ai danni della popolazione continuano infatti a essere perpetrati indisturbati. La vita della miniera, si sa, vale economicamente molto più di quella degli indigeni che vi abitano, fonte di disturbo più che di arricchimento per le aziende minerarie occidentali. Alla Drummond in particolare, son state mosse nel corso degli anni molteplici accuse di aver utilizzato gli squadristi per sopprimere ogni forma di dissenso da parte dei lavoratori locali.

Il ruolo dell’Italia nello sfruttamento colombiano

Ma la questione riguarda il nostro Paese non meno della Germania e degli altri governi d’Europa, e vi è forse ancora troppa ignoranza a riguardo. Dalla Drummond l’italiana Enel, principale multinazionale in Italia per l’energia, ha comprato per anni il carbone destinato alle sue centrali. Nel 2017, per evitare che le accuse rivolte alla Drummond ricadessero anche sulla propria azienda, la compagnia Enel ha fatto sapere per bocca del suo amministratore delegato Francesco Starace che intendeva smettere di importare carbone dalla multinazionale statunitense. Tuttavia, la multinazionale energetica italiana importa ancora dalla Guajira tramite il consorzio Cerrejon, come confermato durante l’assemblea degli azionisti del 2019.

Enel possiede infatti la più grande centrale a carbone d’Europa a Brindisi, centrale alimentata in gran parte dalla polvere nera proveniente dalla Colombia. Come evidenziato nella pubblicazione “Profondo Nero” e nel video “La Via del Carbone”, pubblicati da Re:Common nell’aprile del 2016 e da vari rapporti della Ong olandese Pax, il percorso del carbone dalla Colombia all’Italia è sempre stato segnato da gravi violazioni dei diritti umani e da orrendi crimini perpetrati dalle unità paramilitari. “Profondo Nero – Il viaggio del carbone dalla Colombia all’Italia: la maledizione dell’estrattivismo” racconta la rotta del carbone dalla Colombia all’Italia e i pesanti effetti causati sul Paese latino-americano dalla maledizione delle miniere di carbone.

Recentemente, durante uno dei suoi molti appelli al buon senso e alla sensibilità umana e ambientale che sembrano oggigiorno sempre più scomparire dalle menti di chi governa le grandi potenze mondiali, Angelica Ortiz ha voluto rivolgersi agli azionisti dell’azienda elettrica italiana, e stimolare la coscienza civile dei singoli italiani, affermando che “non basta dire ‘pago l’energia che consumo’, bisogna sapere cosa succede là dove viene estratto il carbone per produrre quell’energia”.

La domanda che, venendo a conoscenza delle condizioni di sfruttamento e soprusi sopra brevemente accennate, dovrebbe sorgere spontanea è se possa essere legittimo inasprire ulteriormente tali sfruttamenti ai danni di queste persone, allo scopo di rifornire l’Europa di carbone. E il paradosso si presenta ancora più calzante nel momento in cui si pensi alla crisi umanitaria conseguente alla guerra attualmente in atto in Ucraina: la risposta dell’Unione Europea può essere il finanziamento di un’altra crisi umanitaria dalla parte opposta del mondo? E se il bisogno di rifornimenti di combustibile per assicurare ai cittadini europei l’energia necessaria è incalzante, fino a che punto il fine può giustificare i mezzi?

Leggi anche: Germania, carbone colombiano sostituirà quello russo. Ma preoccupano le conseguenze ambientali e umanitarie

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Immagine di copertina: © Foto Daniel Luis Gómez Adenis da WikimediaCommons