Austerity addio: come l’Italia ha vinto la battaglia dell’euro. Dovremo esserne all’altezza

Nuovo appuntamento con Kipling, rubrica a firma di Stefano Casertano

Dal tramonto dell’austerity all’alba del modello italiano: non ce ne siamo ancora accorti, ma l’Italia ha vinto la battaglia d’Europa. Se un tempo l’idea finanziaria era rigorosa, frugale, protestante ai limiti del calvinismo, oggi l’ideologia che gestisce le finanze statali ricorda quella del nostro paese fino ai primi anni Ottanta.

Le analogie sono evidenti. Il sistema italiano prevedeva che il Tesoro emettesse titoli di debito e che parte di essi venissero assorbiti da Bankitalia tramite stampa di denari. In questo modo si evitava che il debito pubblico aumentasse eccessivamente. La conseguenza normale era che con così tanti soldi in giro l’inflazione gravitasse attorno al 10%. Era una “tassa occulta” che in pochi si rendevano conto di pagare.

Analogie e differenze tra l’attuale strategia europea e il modello italiano degli anni ’80

Lo stesso sta succedendo con i vari bazooka caricati a banconote da Francoforte. In realtà sarebbe più giusto usare l’immagine di un “buco nero” che assorbe titoli di stato dal continente, e che poi tramuta detti titoli nella dimensione di denaro in circolazione – ma sono dettagli.

Manca l’inflazione? Per ora certamente, e questa è forse la differenza principale con il modello dei tempi dell’Italia da bere. Tale differenza si spiega con il fatto che l’euro è valuta più forte della lira. In particolare, negli ultimi mesi la svalutazione del dollaro ha assegnato all’euro il ruolo inusitato di valuta di riferimento, e la stampa francofortina ha trovato clienti in tutto il mondo.

L’altra differenza è data dalle importazioni asiatiche. Dal 2018 il continente è tornato a importare più di quanto non esporti (saldo commerciale negativo), e gli acquisti di produzioni cinesi e indiane a basso prezzo hanno contribuito a mantenere bassi i prezzi. Questo in Italia negli anni Ottanta non c’era, anche perché eravamo noi i cinesi d’Europa.

Perché poi non è detto che la situazione rimanga tale. A dicembre per il quinto mese di fila in Europa c’è stata deflazione, con l’ultimo valore a -0,3%. Però non dimentichiamo che l’immobiliare tedesco non è arretrato di un millimetro (quadrato), e che a gennaio tornano IVA normale (19%) e non ridotta al 16% come da inizio pandemia nonché nuove tasse tedesche sulle emissioni per i carburanti. Ciò che non ha potuto la BCE, potrà il fisco: se aumenteranno i prezzi sarà per le tasse. Poi si potrebbe inserire un aumento “reale” dell’inflazione (BCE dixit a voce di Isabel Schnabel, membro del consiglio direttivo).

Come il MES aiuterà il formarsi di un’Europa più integrata

Il copernicanesimo in campo ideologico-finanziario risponde anche a una necessità reale del contesto europeo. L’Italia nei primi anni Ottanta era sempre caratterizzata da un contesto economico-industriale radicalmente differente tra nord e sud. La valuta unica introdotta dai piemontesi ha funzionato fino a un certo periodo tramite la dominazione diretta, ma poi – dopo uno iato pittoresco di saluti romani e passi dell’oca – il costrutto ha dovuto lasciare il passo a sistemi più contemporanei.

In altre parole, se la zona ricca non investe nella zona povera, a parità di valuta tutto il risparmio rimane nella zona ricca, acuendo le differenze. Il sistema dei titoli di stato stampa-e-compra serviva anche a creare risorse da distribuire al sud, con il nord economico che pagava il tutto con l’inflazione – a parte i trasferimenti fiscali diretti. Ma non vediamo qui un’altra analogia ancora?

Nella teoria delle “Zone Valutarie Ottimali” di Robert Mundell un’area monetaria unica per funzionare necessita di libertà di movimento di persone e di capitali, insieme a rimesse fiscali dai paesi ricchi a quelli poveri. E ancora – non è quello che sta succedendo in Europa? I soldi vengono investiti al nord. Del fatto che ci sia un drenaggio di cervelli dal sud verso il nord – grazie alla libera mobilità – è piena la letteratura giornalistica; mancava però il terzo elemento – quello delle rimesse fiscali.

L’importanza del MES ora

È il MES allora a ovviare a questa mancanza e far entrare finalmente l’Europa nel novero delle aree monetarie uniche realmente integrate, come quella del dollaro, del renmimbi o della rupia indiana, alla faccia di falchi, frugali e a quella ancor peggiore di Alternative für Deutschland.

Certamente sarebbe meglio avere dietro reali intenti di pace e fratellanza, ma detti prodotti non sono ben spendibili nei confronti dell’elettorato protestante, sempre weberianamente parlando. Perché poi del resto il debito federale americano è stato messo in comune dopo la guerra per la rivoluzione – e così si è compiuta la nascita del dollaro. In Cina la valuta unica è stata introdotta nel 1948 con la spinta della guerra civile di Mao contro Chiang Kai-shek. La pandemia che ci ha dato la spintarella valutaria si colloca pertanto in una cinica tradizione capitalista, secondo cui unità e pace nascono dalle tragedie.

Cambia un aspetto: l’Europa italianizzata non potrà indulgere in svalutazioni competitive come si faceva un tempo, ma tant’è.

Quando l’Italia decise d’interrompere il filo diretto tra Tesoro e Bankitalia lo fece per una tensione verso il modernismo europeo. Ambiva a tedeschizzarsi: si sarebbe dovuto industrializzare il sud, creare una maggiore integrazione fiscale, investire. Purtroppo l’ideologia era cambiata, ma la mentalità no: si pensava ancora di poter spendere senza risorse. Per questo alla tassa occulta dell’inflazione si è sostituita quella reale del fisco, e inoltre il debito pubblico è esploso.

L’Italia è un laboratorio politico dal quale nascono costantemente idee che poi tutto il mondo occidentale adotta. In questo caso, noi abbiamo già visto ciò che può succedere se il cambiamento non è accompagnato da una vera rivoluzione culturale, politica e identitaria. Siamo all’alba di una nuova stagione di speranze, ma ne saremo all’altezza?

twitter: @stenocasertano

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