Transit, alla Berlinale il dramma sull’eternità della condizione di rifugiato è un mezzo flop
Alla 68esima Berlinale l’acclamato regista tedesco Christian Petzold si cimenta in un adattamento del romanzo Transit (1944) di Anna Seghers.
Dopo La scelta di Barbara e Il segreto del suo volto, Petzold torna a occuparsi della storia tedesca con il suo ultimo film Transit, presentato in concorso alla 68esima Berlinale. Se La scelta di Barbara si concentrava sulla storia più recente della DDR, Il segreto del suo volto è invece ambientato nella Berlino del Secondo dopoguerra. Con Transit Petzold trasferisce la storia dell’omonimo romanzo di Seghers ai giorni nostri, lasciando però invariati i riferimenti storici agli anni Quaranta e dunque al nazismo: due epoche, quella moderna e quella della Seconda guerra mondiale in Europa, si sovrappongono per raffigurare così la condizione eterna e universale di transito in cui si trova l’uomo. Tra gli interpreti di Transit ricordiamo Franz Rogowski, Shooting Star europea per la Germania alla 68esima Berlinale, nel ruolo principale e Paula Beer.
La trama
I nazisti stanno avanzando su una Parigi dei giorni nostri. Per una serie di (s)fortunati eventi, Greg (Rogowski) riesce a lasciare la capitale francese e si ritrova a Marsiglia con i documenti di transito di uno scrittore tedesco suicida che aveva intenzione di emigrare in Messico. Dagli incontri fatti in città, il protagonista si rende conto che Marsiglia è quasi esclusivamente abitata da una popolazione in attesa di fuggire, da persone che “per restare devono dimostrare sulla carta di voler e poter partire” per dirla con Greg. Ma questa popolazione in transito, composta da rifugiati del giorno d’oggi, persone in fuga dai nazisti e anime a metà tra il sogno e la realtà, non dispone dei documenti necessari per realizzare la partenza. Lo scambio di identità sembra essere l’unica via per i personaggi per lasciare l’Europa.
Una storia di anime in transito sospesa tra gli anni ’40 e il giorno d’oggi
Anna Seghers scrisse Transit in esilio in Francia tra il 1941 e il 1942. Con elementi autobiografici, il romanzo racconta dei tedeschi oppositori del regime nazista che furono costretti a partire per il Sudamerica. Nel suo adattamento per il grande schermo, Petzold sovrappone il piano temporale originale del romanzo con l’epoca moderna: le città, Parigi e Marsiglia, sono dunque quelle di oggi, le persone indossano abiti moderni, ma Greg è in fuga dai nazisti che stanno avanzando sulla capitale, i personaggi si inviano lettere scritte a mano e i passaporti riportano il timbro del Reich. Sebbene la premessa volta a tracciare parallelismi tra le due epoche lasciandole sfumare l’una nell’altra e a dipingere un’umanità eternamente in transito sia valida, lo sviluppo della stessa si rivela caotico e deludente. I personaggi simili a fantasmi che vanno e vengono nella vita di Greg e di cui lo spettatore sa sempre quasi nulla finiscono per irritare e confondere. La voce fuori campo che subentra ad un certo punto del film suona fuori luogo e va ad aggiungersi alle già troppe storie e voci soltanto vagamente abbozzate che si intrecciano in una Marsiglia sospesa tra gli anni Quaranta e i giorni nostri. Certamente non un grande risultato per il regista tedesco che dopo il riuscito La scelta di Barbara stenta a ingranare e realizza un film che come i suoi personaggi in transito finisce per non prendere alcuna direzione specifica e per apparire come uno sterile esercizio di stile.
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Foto di copertina: Transit Competition 2018 DEU/FRA 2018 by: Christian Petzold Paula Beer, Franz Rogowski © Schramm Film / Marco Krüger