Mondiali 2014, Italia – Inghilterra 2-1 guardata in un’osteria di Berlino
Proprio oggi durante il sonnolento viaggio verso Prenzlauer Berg e la scuola di italiano dove insegno avevo ritrovato una cucitura nascosta con la mia italianità di matrice. Devo al celebre scrittore Carlo Cassola l’adulazione indiretta della mia memoria più remota – che solo per corteggiamento concede di allargarsi nel sentimento, aprendosi il passaggio fra stratificazioni di resistenze e di nuove identità più aggiornate. Era il 1975 quando “Troppo tardi” veniva pubblicato. Nella sua mitologia realista legata al mondo moderno Cassola dà vita a dialoghi e conversazioni così plausibili da rievocare il salotto romano di ambientazione, l’incedere rumoroso e surriscaldato degli autobus a Trastevere e l’intonazione padovana dei protagonisti migranti. Un dettaglio nei primi capitoli mi ha spalancato l’accesso ai ricordi della mia infanzia: quando i personaggi del libro vanno al cinema usando le tessere gratuite assegnate al padre commissario di polizia, e i tre amici devono far finta di esser fratelli. Anche noi a casa avevamo le tessere per il cinema, o per i traghetti, o per le giostre, e quei privilegi da figlia di militare hanno segnato la mia giovinezza.
Mi sembrava di aver sepolto i ricordi degli anni ’70 e ’80 sotto uno strato di contemporaneità berlinese (io appartengo ancora alla generazione di quelli che alla maturità prendevano 60, che usavano i telefoni a gettone e che viaggiavano sulla 131 rifornita di super, di quelli che compravano le enciclopedie in dieci volumi e apprendevano delle stragi al tg1), e invece eccoli riemergere dalle pagine di un autore del dopoguerra. In questi nostri tempi, tutto sembra appiattito in un indistinto stile metropolitano, e quei dettagli di vita di provincia sono l’Italia di me bambina che non ritrovo più. Anche il calcio è diverso da allora. Ma non il tifo.
Dev’essere la giornata della nostalgia perché cerco compagnia di italiani e perciò mi reco nell’osteria Sippi all’angolo, nella Sandertrasse a Kreuzkoelln. La gestisce il fiero e barbuto Alessandro, che propone vino e pietanze (soprattutto pasta fresca ripiena) dell’Appennino tosco-emiliano. Sono da Sippi a mezzanotte meno dieci per guardare la prima partita dell’Italia ai mondiali 2014. Da subito capisco che il tema della serata non sarà la partita, ma la vivacità della tifoseria. Cominciamo con dei problemi tecnici legati al proiettore: il segnale salta. Non si risparmiano imprecazioni e defezioni (“Siamo proprio italiani, non ci credo, persino il turco qui a fianco è capace di avere il video!”), freddure al povero cameriere che armeggia con il proiettore (“L’hai acceso questo Commodor 64”?). Il segnale continua a saltare, e intanto c’è la questione della distribuzione dello spazio: sedie vengono spostate, tavoli vengono accostati, la musica viene spenta, urla vengono lanciate da una parte all’altra della sala per organizzare la visione della partita. Naturalmente perdiamo l’inno d’Italia perché il segnale è giusto saltato prima del calcio d’inizio. Volano da proiettore a parete bianca delle bestemmie fuori misura, “Dio porco”, “Dio cane”, e la più originale che abbia mai sentito, “Dio d’amianto”. Alla fine si trova che se il cameriere sta fermo in un punto sotto il proiettore, la ricezione si stabilizza. Si decide allora che lui per quella sera non lavorerà più e resterà invece in posizione a reggere il precario segnale come un’antenna. I clienti tedeschi che sino a quel momento credevano di poter godere di un servizio normale, guardano senza commenti – o meglio senza parole – verso lo schermo la scena degli italiani che scattano, accelerano e imprecano per riportare la partita sulla parete. L’osteria è piena.
Tutto il gioco viene accompagnato e montato dai cori di esecrazioni e pareri tecnici indignati circa il vuoto in attacco della squadra italiana: “Dove cazzo eravate dio cazzo, a funghi?!”. In effetti il gioco degli azzurri è una tessitura ipnotica di passaggi orizzontali, eleganti e ben stirati come un’apparecchiatura di broccato della domenica. Quando i passaggi rallentano oziosamente, i ragazzi veneti che sono al tavolo affianco ironizzano sulla lunga ricerca del lancio (“Eh sì Pirlo, telefonagli prima di tirargliela!”). Dall’altra parte della sala un gruppo di amici costituito di coppie sembra più dedito agli assaggi di vino che alla tifoseria. Le ragazze si accoccolano sulle spalle dei compagni come gattine portate a spasso, e a me viene da pensare: non potevate starvene a casa e concedere ai vostri compagni una serata fra uomini? Intanto si manifesta un problema di linguaggio: come inneggiare alla nazionale se la politica ci ha rubato le parole, se “Forza Italia” e “Fratelli d’Italia” sono ormai espressioni corrotte?
Nell’osteria affollata, in mezzo ai veneti e ai tedeschi che ci tollerano, mi sento sempre più a casa, si dilegua la vergogna che in questi casi mi fa incassare la testa nel collo, gioisco per i goal e soprattutto, appoggiata al muto pianoforte sul lato destro della sala, sorseggio un vino robusto di Romagna – ottimo.
Italia – Inghilterra 2 a 1. L’oste offre vino della casa a tutti e io me ne torno a casa, mentre penso a mio padre – chissà se ha retto al sonno. Mi tornano in mente le urla che lui lanciava alla finestra dopo ogni vittoria dei mondiali (come ad unirsi a un’esaltazione collettiva, risuonante nella sera), quando io ero piccola e gli stavo accanto, unica di tre femmine che aveva scelto di non lasciarlo da solo in quella ridicola e avvincente gioia patriottica.
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