Hugo Boss e il suo passato da stilista di Hitler e di tutte le divise naziste
La storia di una delle più grandi case di moda al mondo è legata a doppio filo con il nazismo
La Hugo Boss è una della case di moda più famose al mondo, sicuramente la prima se si parla di marchi tedeschi. Il passato del suo fondatore però è condizionato da un accostamento al nazismo non di semplice simpatia, ma di vera e propria collaborazione. L’azienda di abbigliamento e scarpe fondata nel 1923 a Metzingen (non lontana da Stoccarda) dopo i primi anni di successi visse appieno la crisi economica mondiale di fine decennio tanto da dichiarare bancarotta nel 1930. Hugo Boss però non si diede per vinto. Voleva ripartire e così, dopo aver trovato un accordo con i suoi creditori, riuscì a ripartire già nel 1931. Era rimasto con solo sei macchine da cucire. In tasca però aveva un accordo con quel partito nazista presso cui iscrisse proprio in quell’anno. Hitler sarebbe salito al potere solo nel 1933, ma i nazisti già si facevano notare per le proprie uniformi. A disegnargliele, già dal 1928 (anche se Boss nel 1935 dichiarò che accadeva dal 1924), c’era Boss. Con Hitler diventato führer le commesse statali divennero la ragione principale del successo dell’azienda. Come scoperto nel 1997 dalla rivista austriaca Profil: Boss vestì SS, SA, Gioventù hitleriana e Wehrmacht. I vestiti confezionati da Boss diventarono il simbolo del regime, e le sue uniformi identificate con il terrore delle milizie naziste. Non fu un accordo solo commerciale. Come viene spiegato nel libro (pubblicato nel 2011 e commissionato dalla stessa casa di moda) Hugo Boss, 1924-45 dallo storico Roman Koester, docente all’Università di storia militare di Monaco del marchio d’abbigliamento Hugo Boss fu un fervente nazista, iscritto al partito non solo per salvare la propria azienda ma perché convinto della politica condotta da Hitler in quegli anni.
Hugo Boss e la guerra
All’epoca della scoperta il figlio Siegfried affermò «Ovvio che mio padre fosse membro del partito nazista, ma chi non lo era allora?». Il problema tuttavia non è la semplice iscrizione al partito di Hitler, cosa che capitava spesso anche solo per poter continuare a lavorare in Germania. L’elemento più grave della vicenda è che le basi delle fortune dell’azienda di abbigliamento tedesca debbano essere rintracciate proprio nei contratti con i nazisti e con lo sfruttamento del lavoro dei deportati di guerra.Nel periodo bellico, la Hugo Boss impiegò ampiamente operai schiavizzati, prigionieri di guerra e deportati da Russia e Polonia. Nel suo libro, Koester riporta la cifra di 180 prigionieri, di cui 140 francesi e 40 polacchi, impiegati in condizioni di lavoro inumane nell’azienda di moda tedesca. La compagnia ha pubblicato nel 2011 un comunicato sul suo sito web nel quale chiede scusa ed esprime «il suo profondo rammarico verso quelle persone che hanno sofferto un danno e un forte disagio mentre lavoravano nell’azienda di Hugo Ferdinand Boss sotto il regime nazional-socialista». Finita la guerra Boss fu definito un “opportunista del Terzo Reich”, gli fu tolto il diritto di voto, e fu condannato a pagare una multa di 80.000 marchi. Morì poco dopo nel 1948. L’azienda passò nelle mani del genero Eugen Holy. Con lui l’azienda spostò il suo interesse sugli abiti eleganti. Nel 1950 ricevette la prima commessa per una collezione di vestiti da uomo, la prima di una lunga serie e che ne hanno alimentato il successo su base internazionale.
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