Ad un anno dall’attentato di Berlino ciò che ci rimane è solo il dolore
Un anno fa, ore 20:02 del 19 dicembre 2016, un autoarticolato Scania R di colore nero con targa polacca rubato qualche ora prima al camionista Robert Łukasz Urban, entrava a tutta velocità all’interno di Breitscheidplatz , una delle piazze più popolari per il tradizionale mercatino natalizio.
Furono colpite 67 persone. Undici di loro persero la vita a cui va aggiunto Urban che era stato accoltellato e ferito da un colpo da una sparo alla testa poco prima dell’impatto e che, moribondo, riuscì comunque ad afferrare il volante poco prima dell’impatto costringendo il veicolo ad una virata a sinistra che salvò probabilmente molte vite.
Memori di quanto successe a Nizza sei mesi prima, si capì subito che si trattava di attentato. Nella notte, vicino alla Colonna della Vittoria, fu fermato un sospetto pachistano. Fu rilasciato il giorno dopo. Nel frattempo Anis Amri, il tunisino salafita che aveva compiuto l’attacco, si aggirava per la città. In mattinata, sul ponte Kieler, a pochi chilometri da Breitscheidplatz, girava il suo video-testamento dichiarando obbedienza totale al “comandante dei credenti Abu Bakr al-Baghdadi”. Poco dopo comincia ad organizzare la sua fuga. La polizia sa che è stato lui: ha trovato, per quanto sembri paradossale, i suoi documenti sotto il sedile di guida del camion. Non è un nome nuovo per le autorità, da mesi era stato segnalato, ma non si pensava potesse essere così pericoloso. Le ricerche si concentrano a Berlino. Pochi pensano che sia in grado di lasciare la città. E invece lui ci riesce. Prende un mezzo, ancora non si è capito se un treno, un bus (probabile) o un auto, e si dirige a Chambéry, sud-est della Francia. Da lì prende un treno verso Milano. Sembra che la sua direzione finale sia Roma o Napoli. Ad ogni modo, all’alba del 23 dicembre si trova a Sesto San Giovanni. Viene fermato per dei controlli da due poliziotti che, pare, si insospettiscono del suo errare senza meta nei dintorni della stazione. Non pensano ad Anis Amri, per loro è un fermo di routine. Ne nasce invece uno scontro a fuoco che termina con la morte di Amri.
In tutti quei giorni qui a Berlino si piangeva. Per quanto da mesi la Germania soffrisse la paura di un attacco, tra falsi allarmi e attacchi sventati all’ultimo, Berlino sembrava essere destinata a salvarsi. Troppo tollerante, simbolo perfetto di una coabitazione felice e spinta verso il futuro tra occidentali e mondo arabo. La strage metteva in discussione quell’anima multiculturale che aveva contraddistinto la città fin dagli anni ’80. Ci si guardava sulla metro con sospetto, forze armate giravano con il mitra in bella vista per le stazioni di Alexanderplatz, Friedrichstrasse e Hauptbahnhof. Ogni zaino lasciato incustodito portava ad un allarme bomba che interrompeva il regolare passaggio dei mezzi pubblici. Si faceva il calcolo dei morti, sette tedeschi, una israeliana, una ceca, un’ucraina e un’italiana, Fabrizia Di Lorenzo, nostra ex collaboratrice. I messaggi di sua zia sulla sua pagina Facebook poche ore dopo l’attentato, “che fine hai fatto? Stai bene? Il cellulare non ti prende”, tuttora mi riempiono gli occhi di lacrime. Due giorni dopo, il 21 mattina, chiamando il numero verde messo a disposizione dalla polizia per informazioni sulle vittime ci dissero subito che Fabrizia Di Lorenzo era morta. Fu probabilmente un eccesso di sincerità. La lista ufficiale delle vittime non uscì infatti che due giorni dopo. Noi nel frattempo ci eravamo consultati con l’Ambasciata e avevamo deciso di aspettare comunque che fosse un organo ufficiale a dare notizia pubblicamente, previo il terribile avvertimento a quella famiglia che, tra social e amicizie comuni, di tutto aveva fatto per ricevere un qualsiasi segno di vita.
Il loro dolore, che immaginiamo intenso oggi non meno di ieri, ormai è anche per noi legato a doppio filo con Berlino. L’assurdo è che non riusciamo a teorizzare il tutto, a vedere in quell’atto di follia un quadro più grande, né un “riportare la città del divertimento” (c’è chi parla così di Berlino) “sulla terra”, instillandole quel senso di paura che ormai caratterizza tutte le grandi città, né la necessità di fare presente alla Germania che la sua politica dell’accoglienza, o quella ancora più in generale, dell’integrazione, stia dando i frutti sperati. Ad un anno da quell’attentato ciò che sentiamo è solo tanta tristezza e quelle frasi lette su Facebook a cui all’inizio non ci si voleva credere.