Siamo state dentro un’ex centrale elettrica di Berlino per Metabolic Rift, mostra davvero fuori dal comune

Abbiamo visitato la mostra Metabolic Rift presso il Kraftwerk Berlin. Un’esposizione da non perdere per gli amanti dell’arte contemporanea e della musica elettronica

Un cubo di ghiaccio che si scioglie sotto il calore di una lampada e uno schermo che mostra a ripetizione la caduta di una goccia d’acqua, mentre in sottofondo un loop di musica elettronica ripete continuamente la parola “sweat”. È un’installazione che forse, raccontata così, non sembra particolarmente geniale. Quando però tutto intorno c’è il Kraftwerk un’ex centrale elettrica nel cuore di Berlino, oggi location per concerti ed eventi (nonché sede dello storico club Tresor) allora la sensazione è ben diversa: si trattiene il fiato, colpiti da un’insieme di sensazioni contrastanti.

L’installazione fa parte di un’esposizione collettiva dal titolo Metabolic Rift, in mostra presso il Kraftwerk Berlin fino al 30 ottobre. Un’esperienza da non perdere per chiunque apprezzi l’arte contemporanea e per chi è attratto dalla club culture berlinese. Ma non solo, Metabolic Rift è soprattutto una mostra che ci parla di tematiche sociali: distanza tra umanità e natura, solitudine, isolamento, alienazione e vita in un mondo post-apocalittico. Facciamo però un passo indietro e raccontiamo la nostra esperienza.

metabolic rift

©Frankie Casillo

metabolic rift

©Arash Nassiri

Dentro al Kraftwerk per Metabolic Riff

L’ingresso alla mostra Metabolic Rift avviene in piccoli gruppi, di non più di 10 persone. Il giorno della nostra visita, non appena arrivate davanti al portone principale, un membro dello staff ci avverte che dentro avremmo attraversato degli spazi estremamente bui, ma di non preoccuparci, perchè “tutto è sotto controllo”. Così entriamo, scendiamo una rampa di scale ed eccoci a percorrere il primo corridoio. È completamente buio e, istintivamente, mi aggrappo al braccio della mia collega Sofia. Andiamo avanti, e questo tunnel così buio mi riporta a ricordi lontani. Mi rendo conto che siamo all’interno del Tresor, uno dei club più famosi di Berlino e tra i pochi che non hanno ancora riaperto dopo la pandemia. Vederlo così, spopolato e senza techno incalzante, è decisamente straniante.

metabolic rift

©Igor Adameyko

Il tunnel ci conduce all’interno di una sala grezza, in cemento armato, al fondo della quale si trova una struttura in ferro che ricorda la grata di una prigione. Per chi è già stato al Tresor non sarà difficile rendersi conto che stiamo parlando della sua storica sala principale. Un tempo gremita di corpi danzanti, in questa sala vuota ora regna un’atmosfera quasi spettrale. È qui che vediamo le prime installazioni: il cubo di ghiaccio che si scioglie e lo schermo con la goccia d’acqua, accompagnati da un sottofondo musicale che riproduce in loop la parola “sweat”. Ripensandoci, la situazione sembra paradossale: un tempo contenitore di corpi che danzano e sudano, in questa sala vuota resta solo questa parola, “sweat”, come eco nostalgico di qualcosa che non esiste più.

Guidate da luci e suoni che ci accompagneranno in tutte le aree della mostra Metabolic Rift, ci spostiamo in altre aree dell’edificio. Arriviamo in una sala dai soffitti altissimi e dalle pareti in cemento nudo. Qui una figura gonfiabile si muove dall’alto al basso, da destra a sinistra, occupando gran parte dello spazio disponibile. Si tratta dell’installazione artistica di Cyprien Gaillar, una scultura cinetica realizzata in collaborazione con  il compositore e artista del suono Jamal Moss. La scultura si muove al ritmo di una musica elettronica martellante, come a richiamare le danze che, a causa della pandemia, sono state costrette a un’immobilità senza precedenti. Non appena la musica si interrompe, anche la figura cessa di danzare, l’aria che l’animava fuoriesce e la scultura ricade su se stessa (come in foto).

metabolic rift

©Cyprien Gaillard

Le luci ci guidano verso un’altra stanza, apriamo una porta e un canto ci invita a salire lungo una scalinata. Lo scenario do Metabolic Rift si fa sempre più surreale. Arrivate in cima alle scale giungiamo in una delle stanze più grandi di questo edificio. La stanza è buia, la musica e gli effetti di luce fanno da padrone. Nonostante i ritmi techno, lo scenario sembra quasi sacrale. Nella mia testa non posso fare a meno di pensare all’immagine di una “Cattedrale techno”, come alcuni berlinesi chiamano anche il Berghain. Io e Sofia siamo rapite dall’esperienza, ci scambiamo qualche sguardo ma non parliamo. Dopo essere passate attraverso quella che ricorda una sorta di cabina di comando scendiamo al piano sottostante.

©Frankie Casillo

Di cosa parliamo quando diciamo Metabolic Rift

L’ambientazione di Metabolic Rift a questo punto diventa post-apocalittica: vediamo una discarica di macchine abbandonate, sculture composte da cavi, copertoni e altri materiali di recupero. Ma non solo, vediamo anche schermi su cui vengono proiettate immagini di fiori, insetti, alberi e prati. Immagini di una natura viva, in netto contrasto con la struttura industriale nella quale ci troviamo.

©Frankie Casillo

La mostra sta per concludersi e in una delle ultime sale troviamo un’opera che ci aiuta a comprendere meglio il senso dell’esposizione. Si tratta di un breve testo che spiega l’origine del termine Metabolic Rift (cioè frattura metabolica). Un concetto che nasce con Marx e che fa riferimento a quella frattura che si apre tra umanità e natura, nel momento stesso in cui nasce il processo di produzione capitalista. Titolo che racchiude perfettamente il senso dell’esibizione che abbiamo appena visto. Una volta uscite dall’edificio chiedo a Sofia come si sente, mi risponde “alienata”. Concordo, un’alienazione che però lascia posto anche a sentimenti di profondo interesse e stupore per quanto appena visto.

Studia tedesco a Berlino o via Zoom con lezioni di gruppo o collettive, corsi da 48 ore a 192 €. Scrivi a info@berlinoschule.com o clicca sul banner per maggior informazioni

Non perderti foto, video o biglietti in palio per concerti, mostre o party: segui Berlino Magazine anche su Facebook, Instagram e Twitter

Immagine di copertina: ©Frankie Casillo