Start Up

A Berlino le start up ti licenziano da un momento all’altro, ma lo fanno con il sorriso

Flat hierarchies, frutta fresca, caffè e bevande energetiche, non è la lista della spesa per una festa nerd a base di World of Warcraft, si tratta del classico contenuto degli annunci di lavoro delle start up.

Se vivi a Berlino e non sei tedesco c’è una altissima possibilità che tu sia incappato in questi annunci, che ti abbiano reclutato e che tu ci abbia lavorato o ci lavori ancora. Una start up per farla breve non è altro che un idea di qualcuno che incontra i soldi, spesso molti, di qualcun altro che crede nell’idea e la finanzia. Il sogno di una società perfetta che si avvera. L’utopia però finisce, se tutto va bene dopo circa una anno, cioè nel momento in cui la start up è obbligata a smettere di vivere di rendita e deve cominciare a creare profitto, un passaggio cruciale che spesso corrisponde ad una forte contrazione delle risorse e di conseguenza a tagli netti delle spese.

I contratti di chi lavora in queste realtà sono a tempo determinato proprio per rendere più facile lo snellimento del personale in momenti di necessità, questo è quello che è successo anche nell’azienda in cui lavoravo. Le modalità del licenziamento sono state tali da poter essere tranquillamente definite grottesche e al limite dell’assurdo, ma un assurdo in fin dei conti simpatico. Vi spiego il perché.

La mia esperienza di lavoro in una start up

Il tutto è successo qualche giorno fa. Arrivo al lavoro in anticipo di qualche minuto come sempre, nell’open space ci sono i colleghi svedesi, olandesi e in teoria ci dovrebbe essere anche il collega italiano che ha iniziato il turno prima di me. Saluto tutti e mi accorgo che il suo PC è spento, l’unica traccia della sua presenza è lo zaino, una cosa alquanto insolita. Accendo il mio PC, verso del caffè e mi preparo a cominciare, qualcosa mi dice che non sarà una giornata come le altre. Gli indizi sono ovunque come in una puntata di CSI, tranne che per le tracce di sperma, bisogna solo far attenzione ai particolari: una parola sussurrata, uno sguardo che si abbassa senza motivo, un via vai di gente per i corridoi e quella sensazione che Darth Vader definirebbe «un tremito nella forza.»

 

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Mi impongo di smetterla di essere paranoico e mi metto comodo davanti al PC ormai acceso. Ancora nessuna traccia del mio collega, penso che magari gli ha preso un cagotto fulminante ed è chiuso in bagno, chissà. Ho ancora due minuti prima di cominciare il turno per cui chiedo a dei colleghi in altri uffici, tramite Skype se sia tutto ok. Non ricevo risposta nonostante siano on line. Scherzando digito questa frase «Ma tutto ok? Ho come la sensazione che stia per scatenarsi una tempesta di merda». In basso a destra sul desktop compare un pop up, hai 1 nuova mail, oggetto «Importante», mittente il vice capo, corpo «Quando arrivi non collegarti, recati nella sala grande.» Se c’è una cosa che ho imparato dai film è che se il capo ti dice di recarti nella sala grande ci sono due possibilità: la prima è che stai per essere licenziato, la seconda è che dentro ci trovi i federali e il capo ti dice «questi signori avrebbero qualcosa da chiederti» in entrambi i casi non è una visione allettante.

Mi rendo conto che non so neanche quale sia la sala grande per cui mi aggiro per l’ufficio come una di quelle galline che continuano a correre dopo che gli hanno mozzato la testa. In mio aiuto arriva un tizio che avrà finito le medie l’anno scorso, ha una cartellina in mano e mi chiede chi o cosa stia cercando, glielo spiego e lui mi indica una porta. Entro in questo stanzone, la scena è surreale, un misto tra la festa delle medie e il classico funerale americano, ci sono circa quaranta persone, raggruppate per nazioni. Svedesi, olandesi, spagnoli e italiani, tutti nella stessa grande barzelletta comune. Quello che attira subito la mia attenzione però è il buffet di dolci, avete capito bene, un enorme e ben assortito buffet con dolci di ogni tipo, caffè, latte e soft drink.

 

Adesso è chiaro, è un funerale, il nostro. Mi viene incontro una collega e mi dice «Ci hanno licenziati tutti», non so bene come risponderle, in certi casi la mia reazione è sempre la stessa, scoppio a ridere. I motivi del licenziamento passano in secondo piano. Quando parlo con chi di dovere mi dicono che l’azienda deve poggiare su basi più solide, che è stata una decisione difficile, che il reparto HR si impegnerà per trovare altre possibilità in altre compagnie. Il reparto HR? Quello che ci ha messo due settimane per inviarmi un codice di sconto a cui avevo diritto? Come avrebbe detto la sora Lella «annamo bene, annamo proprio bene».

L’ironia della situazione

Di questa esperienza la cosa che davvero ritengo inspiegabile non sono le strategie aziendali, le scelte economiche e strutturali ma quel cazzo di buffet, quello vi giuro è una cosa di cui davvero non riesco a capacitarmi, vorrei sapere chi ha avuto quest’idea, come e quando è stata partorita.

Me la immagino la riunione, il boss delle risorse umane dice qualcosa del tipo «9», tutti si guardano in faccia, ci pensano, riflettono, se fossi lì sentiresti i criceti nelle loro teste correre all’impazzata ad affannarsi come un vecchio che cerca di scopare.

Arrivano le prime proposte. Kim è una romantica e dice «Mandiamogli uno di quei postini che cantano il messaggio», Lukas è uno da social media e propone «Tagghiamoli tutti in un foto su facebook con dei gattini che compongono la parola FIRED.» Jane è una mattacchiona e la sua idea è «Nascondiamoci tutti dietro le scrivanie e aspettiamo che vadano via», il capo non è soddisfatto, serve qualcosa di più, manca ancora Hans. Lui alza lo sguardo verso gli altri e comincia a canticchiare una canzoncina che tutti i bambini conoscono «Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, organizziamo un buffet di dolci» applausi e mozione approvata. A Berlino segretamente o meno sono tutti artisti, eccentrici, anche quelli che ti licenziano.

P.S. tutti i personaggi nel racconto hanno nomi di fantasia e non fanno riferimento a persone reali.

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Immagine di copertina: © Youtube