Tempelhof, le mille identità dell’aeroporto dismesso di Berlino
Sono le tre e qualcosa del pomeriggio. È un innocuo martedì di ottobre e stranamente non fa tanto freddo.
Sono seduto su una comoda e improvvisata panchina in legno. Una delle tante incastonate come pietre preziose all’interno del “giardino comune” di Tempelhofer Feld, nel tentativo di buttare giù un paio di righe disinteressate.
Non molto distante da me una ragazza canta. Seduta, anche lei, su una comoda panchina. Canta con grazia e naturalezza. Le cuffie che porta sulle orecchie dirigono la sua orchestra cerebrale. La testa è comodamente distesa sullo schienale, rivolta verso il cielo, dove le sue fantasie volano leggere tra le nuvole, mentre il suono della sua voce accarezza delicatamente l’aria, soffiando dolci vibrazioni nel vento.
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Poi, tra le tante sconosciute, una canzone la riconosco.
È un pezzo dei Portishead. Non semplice da eseguire. Lei ci prova. Con difficoltà stavolta. Gli sta chiedendo un motivo per amarlo. Un motivo per essere donna. È tutto ciò che vuole. Ma l’esecuzione lascia a desiderare. Forse non è il suo genere. Le altre le intonava molto meglio. O forse semplicemente non le conoscevo e pertanto le mie aspettative erano sicuramente meno esigenti.
Comunque ha una bella voce. Limpida, pulita.
Qualcuno la sfotte. Altri la ascoltano compiaciuti. Altri la ignorano.
Ma lei non se ne cura. Lei canta. Lei può.
Un’altra ragazza sta portando a spasso il suo cane. Gli parla come fosse suo figlio. Non solo per il tono della voce. Sembra gli suggerisca indicazioni varie e dettagliate su dove e come pisciare. I tedeschi adorano spiegare ad altri esseri “inferiori” come fare qualcosa nel modo giusto. Richtig und ordentlich. Suppongo anche i cani tedeschi adorino ascoltare il loro padroni impartire loro suggerimenti e lezioni di vita.
Il cane scodinzola felice. E lei gli sorride.
Anche lei non se ne cura. Anche lei può. Ma non canta.
“Witney Houston” è andata via nel frattempo. Tempelhof è tornato ad essere una pista d’atterraggio in disuso.
Ma la magia di questo posto non si esaurisce qui. Tempelhof è storia.
Tempelhof è il termometro che segnala lo stato vitale della città. Nei giorni, nelle stagioni e negli anni.
Fino all’inizio della Prima guerra mondiale venne usato come spazio per parate militari e manifestazioni pubbliche di vario genere. Non era ancora ufficialmente un aeroporto quando i Fratelli Wright vi si esibirono con le loro prime acrobazie aeree. Anche la Lufthansa venne fondata qui. Nel ´26. Mille e novecento, ovviamente.
Ok, nel m-i-l-l-e-n-o-v-e-c-e-n-t-o-v-e-n-t-i-s-e-i.
Durante la Seconda guerra mondiale venne ampliato con un nuovo terminal in granito, divenendo per un po’ di tempo il terzo edificio più grande del mondo, dopo il Pentagono e la torre di Pisa. Ah no, il Parlamento di Bucarest. Scusate, stavo leggendo la pagina di Wikipedia sbagliata.
Ma Tempelhof è anche in un certo senso lotta e resistenza. La battaglia contro la storia, di un luogo che ha visto i sogni, le speranze e i desideri di una città che ha combattuto contro se stessa e contro un mondo che ha scelto di schiacciarla tra due universi contrapposti e testardi, un tempo ostinatamente separati da più di 155 chilometri di mattoni e filo spinato. Il luogo dove durante la Guerra Fredda, prima ancora che esistesse il Muro, la solidarietà e l’opportunismo d’oltreoceano si sono concentrati, miscelati e manifestati sotto forma di grossi aerei da trasporto che atterravano ogni 15 minuti, dispensando provviste e dolci illusioni, per rimediare all’embargo russo.
Lo stesso luogo dove, nel maggio 2014, la voglia di difendere la propria indipendenza da spinte edilizie progressiste e gentrificazioni eteroimposte si è espressa attraverso un referendum, dimostrando l’irremovibile fermezza dei berlinesi nel mantenere questo posto intatto e incontaminato da ogni speculazione economica e urbanistica.
Perché è questo il suo vero carattere. Questo il suo vero e attuale valore simbolico: l’invarianza ostinata e fiera del lasciare il tutto così com’è. Così come è sempre stato.
Una volta dichiarato non operativo, nel 2004, l’aeroporto è diventato semplicemente uno spazio enorme sprovvisto di una funzione logistica ben definita, ma predisposto ad accogliere in futuro ogni concepibile umana attività. A partire dal 2010, una volta divenuto spazio pubblico, i berlinesi se ne sono semplicemente e lentamente appropriati negli anni facendolo loro e, ciascuno a modo suo, rendendolo uno dei posti unici di Berlino.
Il carattere della città trova in questo posto la sua forma più rappresentativa e sincera.
C’è lo spazio immenso della fantasia che scorre sfrenata tra le piste e i terreni circostanti.
C’è la voglia di espiazione ed elevazione del cielo sconfinato che si spalma lontano all’orizzonte come in un dipinto di Dalí.
C’è il genio costruttivo e indaffarato degli orti comuni berlinesi e la rilassatezza delle famiglie e comitive che vi si ristorano.
L’energia degli sportivoni che vi accorrono numerosi per dedicarsi al sano mantenimento della forma fisica o a ogni sorta di sport da “aria aperta”.
La spensieratezza delle comitive superattrezzate che si sollazzano a suon di musica, birre e carnazza grigliata.
C’è la solitudine e l’alienazione delle giornate grigie e desolate.
E poi bandiere sventolanti, coppiette solitarie, stand, mercatini, festival e concertini occasionali. Aquiloni di ogni dimensione e forma che svolazzano disordinati nell’aria, alberi secolari e solitari dispersi nella radura, corvi, cornacchie e vento. Tanto vento.
Poi ancora i turisti. Dediti all’osservazione attenta di tutte le singolarità che il luogo offre, nel tentativo di comprendere cosa sia effettivamente Tempelhof.
Un vecchio aeroporto?…un immenso campo sportivo?…una zona di osservazione per dilettanti ornitologi?…una comoda area per barbecue?…un luogo d’incontro?…un luogo di scontro?
Tempelhof è semplicemente il luogo dove la naturalezza delle attività umane prende forma e sostanza.
A Tempelhof si vive, si ama e si odia. Si desidera e si rimpiange. Si gioisce e si soffre. Si pensa e si legge. Ci si svaga e ci si affanna. Si insegna e si impara. Si tollera e si giudica. Si mangia e si beve, si corre e si dorme. Si parla, si scopa e si vomita. Si urla e si sussurra. Si ignora e si accudisce. Si cerca, si ricorda e si dimentica.
Il tutto sotto un cielo onnipresente, complice e sconfinato. Il cielo di Berlino.
Tempelhof è il luogo dove i desideri e bisogni umani si manifestano nella loro più violenta e disarmante semplicità, senza reclamare mai nulla.
Sono le cinque e qualcosa. Ora, un po’ più distante dalla panchina dove prima era seduta Witney Houston che cantava, un gruppetto di ragazzi francesi intona una canzone dei Queen. Battono il ritmo con le mani sui tavoli e sulle sedie.
“We will…we will …rock you!!!…rock you!!! cantano allegramente con la “r” moscia francese.
Ma sì. Anche questa è Berlino.
Il sole è via da un po’. Il vento si sta alzando e il freddo comincia a incalzare.
Devo pisciare. Credo che mi avvierò verso casa.
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Foto di copertina © sebaso