Lo zio Thomas e le mie prime esperienze con i tedeschi in Italia
Per me, a quei tempi, la cioccolata era solo cioccolata. Al latte o fondente. Quella bianca aveva ancora un non so ché di esotico e raro.
Ricordo che periodicamente, di tanto in tanto, mia zia ritornava in patria dalla lontana Germania per visitare mia nonna e tutti noi. Ricordo le tavolette di cioccolata che ci portava. Coi ripieni assortiti nelle varianti più bizzarre e impensabili nel sud Italia di quei tempi. Menta, yogurt e fragola, nocciole e uva passa, prosciutto e piselli, scamorza affumicata e funghi, salmone e sale rosa dell’Himalaya, e via dicendo. E poi i salamini minuscoli da sgranocchiare come grissini, salsine strane e accattivanti e altre sorprendenti curiosità dalle sperdute lande tedesche.
La mia prima esperienza di contatto culturale con la Germania, o almeno con qualcosa che ne aveva vagamente a che fare, é stata in tenera età. Allora mia zia studiava medicina a Monaco di Baviera. O forse prima ha studiato e poi ci é andata a lavorare. Comunque ci vive e lavora tuttora grazie ad una brillante carriera medica.
Ricordo le pile di libri di anatomia e fisiologia nella libreria della casa di mia nonna. Era una casa piccola, di quelle antiche, con il soffitto del soggiorno “a stella”, una tecnica edilizia piuttosto diffusa all´inizio del secolo scorso in Salento, ma col tempo andata quasi perduta.
Ricordo anche i panini che ci preparava con pane di segale (tagliato ultrasottile e preciso, alla tedesca) con salame italiano (anche questo tagliato ultrasottile, all’italiana però). Non chiedetemi la differenza. Ma c´era qualcosa in più in quei panini. Qualcosa che andava oltre il semplice spuntino mediterraneo di pane e salame. Era un qualcosa di familiare, ma che la mia estrazione culturale meridionale faticava a riconoscere, se spalmato all’interno di un panino: il burro. Quel sapore fresco e quasi neutro e quel sottile strato bianco-giallognolo che contrastava il marrone scuro del pan di segale e il rosso amaranto del salame risultavano indecifrabili alla mia breve esperienza organolettica personale e piuttosto estranei in generale alla cultura culinaria locale. Il burro, a casa mia, quando non utilizzato per scopi eccezionali o particolari, come una besciamella o una torta, era destinato a ingiallire nel frigo, costantemente surclassato dall´onnipresente e mediterraneerrimo olio extravergine d´oliva. Solo successivamente, a distanza di anni, ovvero dopo i miei primi viaggi in nord Europa e in Germania, riuscii a svelare quell´arcano mistero.
Poi c´erano le tisane. A dispetto della camomilla o del tè (che a quell’età mi era ancora relativamente proibito come il caffè), la Germania, tramite mia zia e, prima di lei, i fornitissimi supermercati tedeschi, sembrava offrire una vasta gamma di infusi per i più svariati utilizzi: terapeutico, rilassante, eccitante, drenante, ammorbidente, diluente, disinfettante, asfissiante, controproducente, etc.
A quell’età non necessitavo di suddette funzioni, pertanto mi limitai ad assaggiare ed apprezzare il tè alla menta, che, sebbene non prettamente germanico, nel mio piccolo paesino di provincia risultò introvabile per molti anni a seguire.Trovavo comunque affascinante il fatto che i tedeschi ricorressero a quei “brodini di erbette” varie per alleviare e curare malattie stagionali o semplici disturbi organici passeggeri, invece di imbottirsi di pillole o sciroppi vari, quale era tradizione in casa mia.
Ovviamente, c´era anche l´altra faccia della medaglia. Spesso mia zia portava con sé intere buste di medicinali di manifattura tedesca. A suo dire “tutta un´ altra cosa!”. Forti, robusti e affidabili. Come le loro macchine. Se non fosse stato risaputo che mia zia era una dottoressa, qualcuno avrebbe potuto tranquillamente bollarla come ipocondriaca irrecuperabile. Fortunatamente, a quei tempi, nessuno in paese conosceva quella parola. Forse neanche tuttora.
Tra tutte le cose più strane, insolite e incomprensibili che mia zia era solita portare dalla lontana Germania, una in particolare destò la mia curiosità, nonché una certa latente ammirazione: mio zio.
A quei tempi era ancora il suo fidanzato, ma ai miei occhi non faceva molta differenza. Per me era solo una persona palesemente estranea alla famiglia che lentamente riuscì a scavarsi un angolo di considerazione all’interno di questa. Non che risultasse antipatico, o indisponente o non suscitasse interesse nella numerosa schiera di familiari. Semplicemente era evidente che appartenesse ad un mondo distante chilometri (geografici e culturali) dal nostro.
Per quanto ben accetto e benvenuto nell’intricato tessuto relazionale della famiglia di mia madre, mio zio non sembrava particolarmente coinvolto nelle complesse vicissitudini familiari, né tantomeno intenzionato a diventarlo (cosa che trovavo spiccatamente sagace). Pertanto lui era partecipe a modo suo e gli altri semplicemente rispettavano questa sua posizione di “neutralità”, probabilmente scambiandola per un iniziale e comprensibile disagio da neofita della famiglia.
La sua introversione, la sua pacatezza e la sua profondità collidevano palesemente con l´esuberante vivacità dell’ambiente circostante, dove zii, zie, cugini, procugini, pronipoti, prozii e parenti acquisiti vari si dimenavano, gesticolavano e chiacchieravano con ardente entusiasmo per animare cene, pranzi e festività varie. Chi cercava di attirare la sua attenzione (spesso inutilmente), chi lo coccolava con birra tedesca e cibi che ne richiamassero le sue teutoniche origini, e chi semplicemente tollerava la sua innocua e distaccata presenza.
Dopo un po’ lui e mia zia si sposarono. Una mattina ritrovai la casa di mia nonna “invasa” da gente estranea. Alti, snelli, e quasi tutti biondi. Non erano in tanti, ma avevano preso pieno possesso della casa. La barriera linguistica era ovviamente un ostacolo alla comunicazione, ma si riusciva a interagire comunque. Probabilmente i parenti di mi zio avevano anche sperato che qualcuno parlasse inglese, o conoscesse anche solo un paio di parole. Purtroppo per loro no. Mia nonna continuava a sgorgare lacrime di commozione sin dal mattino alle sei. Mia zia, l´unica possibile mediatrice linguistico-culturale, era troppo indaffarata ed emozionata per gestire i rapporti diplomatici. Gli altri parenti ronzavano caotici intorno disperati per l’incapacità e l’imbarazzo di non poter pronunciare qualcosa di comunemente comprensibile. Quindi gli “incontri ravvicinati del terzo tipo” erano limitati a semplici scambi espressivi non verbali, alfabeti Morse improvvisati, gesti confusi e qualche sporadico scambio verbale grazie alla conoscenza di un po´ di lingua italiana di alcuni parenti di mio zio.
Sembravano tutti incuriositi. Da entrambi i versanti. A loro doveva risultare molto strana l’atmosfera di casa. Continuavano a guardarsi intorno in cerca di qualcosa di familiare. Ricerche chiaramente vane. Parevano astronauti atterrati in un villaggio di creature aliene primitive su qualche pianeta disperso in qualche galassia lontana.
Mio zio se ne stava in disparte a fumare la pipa. Vestito elegantemente, vagamente a disagio (credo più per l´abito), ma tutto sommato con un aspetto controllato. Probabilmente attendeva solo che tutto terminasse al più presto. Ma credo non avesse idea di cosa significasse la parola “matrimonio” nel sud Italia. Penso che non tardò poi a scoprirlo. In chiesa le donne passano principalmente il tempo a piangere. Lacrime di commozione e speranza per chi non é ancora sposata e non sa se quel giorno arriverà anche per lei. E lacrime di rimpianto per chi sposata lo é, ma il ricordo di quel giorno ha ormai un retrogusto un po´amaro. Gli uomini invece passano dall’indifferenza ostentata al pentimento rassegnato. Sono più che altro solidali con lo sposo e si guardano tutti come per dire: “Poverino, non sa ancora cosa gli aspetta!!”.
Poi c´é la fase dell’impazienza estrema allo stato puro: quando la messa é finita e anche l´interminabile rituale degli auguri. Il riso é ormai divenuto tappeto scricchiolante per scarpini lucidati e tacchi a spillo e restano solo le foto da scattare per il servizio fotografico degli sposi. L´attesa é interminabile. Si sbottonano le camicie, si rimboccano le maniche, si allentano le cravatte e le cinture, il sudore gronda copioso sui volti dei presenti. E´la fase in cui qualcuno, proprio di fronte la casa del Signore, giunge alla sua più profonda crisi mistico-religosa e arriva a chiedersi se Dio esiste veramente. E se si, perché non fa qualcosa per porre fine a quella straziante tortura.
L’umore cambia considerevolmente nel ristorante. Il tasso alcolico aumenta in maniera esponenziale e l´euforia incontrollata la fa da padrone. Gli zii più spregiudicati si scatenano in balli, canti, giochi tradizionali e discorsi dal dubbio spessore morale ma dalla sdrammatizzante e ironica saggezza di chi ci é già passato. Le donne, tra una risata e l´altra, piangono. O guardano imbambolate ed emozionate la sposa. E poi generalmente piangono di nuovo. I bambini invece hanno decisamente meno aspettative o interesse. Pertanto si dilettano tranquillamente a incrementare la spesa del conto del ristorante, ordinando piatti non previsti nel menù, bevande gasate fuori carta e doppie portate, e procurando danni di varia entità all’edificio, ai suppellettili o all’arredamento.
Fatto sta che il fatidico giorno giunse al termine e dopo un po´ gli astronauti salparono per il loro lungo viaggio di ritorno.
Due mondi lontani compressati a stretto contatto come sardine in scatola. Prima in una casa. Poi in una chiesa. E poi al ristorante. E poi via, verso nuove entusiasmanti avventure in giro per l´universo a bordo dell`Enterprise.
Loro.
La tribù aliena era destinata a restare nel villaggio preistorico ancora a lungo almeno fino alla scoperta della ruota e del filo interdentale.
Non vidi più nessuno dei parenti di mio zio. Durante le sue visite successive continuò a venire solo con mia zia. Col tempo sembrava si stesse lentamente adattando all’ambiente.
Quando non ero impegnato in chiassose e irrequiete attività ludiche con mia sorella e cugini vari, mi soffermavo ad osservarlo. La sua dissonanza mi incuriosiva. Non riuscivo a capire che cosa ci fosse di strano in lui da farlo risultare ai miei occhi così diverso. Il suo taglio di capelli squadrato. La sua altezza “spropositata”, con la schiena leggermente ricurva, quasi a segnalare una vita di sacrificio e dedizione a qualche ignota causa ultraterrena. Il suo volto era perlopiù serio, ma non severo. Il suo sguardo concentrato, ma non si capiva bene in cosa. E un velo di melanconia accompagnava ogni espressione del volto. Era una persona buona, lo si capiva all’istante. Ma probabilmente non gli interessava particolarmente di darlo a vedere, e fu proprio questo che cominciò a stimolare la mia ammirazione nei suoi confronti. Capii poi che il suo era un disagio interiore che non aveva nulla a che vedere con il senso di inadeguatezza che il contatto e l’interazione con un ambiente sociale nuovo e non familiare possono suscitare. Era un disagio cosmico, un senso di inevitabile irreparabilità della sofferenza umana. Un vuoto esistenziale che per lui risultava colmabile solo attraverso un disciplinato e metodico silenzio e un costante e procrastinato ragionamento. Weltschmerz direbbero i tedeschi, ma a quei tempi non conoscevo questa parola, come neanche ipocondriaco.
Ottenni una parziale risposta alle mie invadenti curiosità quando chiesi a mia zia, con l´assoluta ingenuità che solo un bambino ignorante può concedersi, se lo zio Thomas fosse stato un nazista, o qualcosa di simile. Mia zia non si scandalizzò, né tantomeno mi rimproverò per l´insolenza della domanda. Però la sua voce divenne seria e mi disse che i suoi genitori erano morti durante il periodo nazista. Non ricordo esattamente cosa disse, né tantomeno se fossero stati i nazisti stessi ad ucciderli. Ma ricordo che lui era seduto a capotavola in quel momento e continuò a mangiare lentamente la minestra senza battere ciglio. Lo guardai attentamente. E nonostante la sua ferma e fiera irremovibilità germanica, potrei affermare di aver sentito il suo cuore fermarsi un istante, prima di ricominciare a battere.
Non mi sentii in colpa per quella domanda impertinente. Non potevo, ero piccolo. Non avevo ancora frequentato abbastanza chiese e catechismi per sviluppare un “sano e cattolico” senso di colpa. Tutto ciò che sapevo in proposito proveniva da vecchi film di guerra e da Charlie Chaplin e la mia idea di Hitler e del nazismo non discostava tanto da quella che avevo di Gargamella e dei Puffi. Ma cominciai seppur lontanamente a intuire la tormentata sofferenza che affliggeva quell´uomo, e forse, anche la maggior parte di una certa generazione di tedeschi riguardo al nazismo.
D´altra parte lui non se la prese tanto. Anzi, non se la prese per nulla. Pertanto col tempo diventammo amici. Probabilmente gli risultava più facile relazionarsi con la mia infantile e ingenua curiosità che con l´incontenibile irruenza degli zii che cercavano di spronarlo a suon di battute in dialetto. Dichiaratamente inoffensive, ma sicuramente per lui poco comprensibili.
A me piacevano i suoi modi riservati e metodici. Ricordo la sua lentezza nel mangiare. Non divorava piatti straboccanti di pasta o di carni varie con la stessa voracità degli altri. Ogni boccone era attentamente selezionato e accuratamente masticato, nonché saltuariamente accompagnato da un sorso di birra, vino o acqua, a seconda della disponibilità in tavola. Il risultato finale era che mentre gli altri commensali terminavano la loro seconda portata, o sbucciavano la prima mela o addirittura rigiravano il cucchiaino nella tazzina di caffè, lui era ancora al primo piatto. E non mostrava alcuna premura nell´ accelerare i tempi.
Ricordo che rimasi particolarmente colpito anche dalla sua passione per la bicicletta. Una volta se la scese giù da Monaco. Ovviamente non una bici qualsiasi. Era una bici da corsa, professionale, con cambio super-tecnologico. Leggera come una foglia e robusta come una quercia. La guardavo meravigliato, come un bambino osserverebbe uno Space Shuttle appena atterrato nel giardino di casa. Quando chiesi a mia zia come mai lo zio Thomas si fosse portato la bici (sÌ, ero solito fare domande piuttosto “brillanti” a quei tempi), mi rispose che lui si spostava sempre in bici, e che una volta avesse addirittura rifiutato l´auto offertagli dalla redazione del suo giornale in favore di questa. Trovai assurdo un rifiuto del genere. Non riuscivo veramente a capacitarmi del perché una persona potesse preferire pedalare faticosamente invece di spostarsi comodamente con l`auto. Perlopiù offerta gratuitamente. Era una questione “ecologica”. Qualcosa che a quell’età potevo solo vagamente comprendere e che giustificavo come una scelta puramente personale di non guidare l´auto. “Forse non gli hanno dato la patente?” pensavo. Anche perché consideravo la patente come qualcosa che, una volta raggiunta l´età adulta, ti spettava di diritto. Come il documento d´identità o il caffè. Si, devo ammettere che avevo tutta una mia idiosincratica concezione del mondo adulto. C´è da dire anche che, allora come adesso, la macchina era il mezzo di trasporto per eccellenza, in un paese dove se ti trovano a camminare a piedi per strada si fermano chiedendoti “se va tutto bene”, come per presupporre un guasto alla macchina o semplicemente una condizione mentale patologica. I marciapiedi rappresentavano e rappresentano tuttora un elemento urbano puramente decorativo e di appannaggio esclusivo delle persone anziane. O insane. Meglio se entrambe.
Il posto dove mio zio esponeva il “meglio di sé” era comunque la spiaggia. Era chiaramente il posto dove tutte le sue inclinazioni più infantili riaffioravano e trovavano libero spazio di sfogo. Il luogo perfetto dove poter tornare bambini e abbandonarsi alla spensieratezza più sfrenata. Bagni “guizzanti” e nuotate sconfinate. Creme solari protettive su ogni singolo centimetro del suo corpo alto e legnoso. Viso rigorosamente rosso paonazzo a testimoniare una costante presenza sotto il sole, il quale, per risposta, si accaniva quasi sadicamente sulla pelle ormai viola, provata dalla violenza dei suoi raggi. La sua mobilità diveniva quasi impacciata e disorientata quando non sapeva bene che fare, ma ritornava precisa e meticolosa quando si dedicava alla costruzione di castelli di sabbia. Ovviamente non castelli di sabbia ordinari. Le sue costruzioni rasentavano la perfezione e la magnificenza assoluta. Non mi sarei sorpreso se avessi sgamato qualche schizzo su carta o addirittura un vero e proprio progetto nella sua borsa con tanto di piano regolatore e autorizzazioni comunali per l´ edificabilità. A confronto, le mie stentate realizzazioni sembravano rovine archeologiche di antichi villaggi rupestri esseni o semplicemente parcheggi per auto recintati. Innanzitutto, le misure erano più che spropositate. Tanto da coinvolgere l´ intero spazio circostante sino al bagnasciuga, dove un canale appositamente scavato a dovere riceveva l´acqua di ogni onda e riforniva il fossato circostante la struttura. Confesso di aver successivamente scopiazzato questa sua geniale e innovativa tecnica edilizia di approvvigionamento idrico. Un edificio principale si erigeva fiero al centro, con tanto di ponte levatoio e decorazioni varie, steccati, scale e sentieri battuti. Il tutto rigorosamente rifinito e squadrato con una precisione quasi millimetrica. Una muraglia robusta circondava il tutto, aggrovigliandosi intorno a sedie sdraio, borse e ombrelloni, quasi a delimitare il territorio.
Ricordo che una volta arrivammo in spiaggia un paio d´ore dopo mia zia, e trovai mio zio Thomas inginocchiato sulla sabbia, dedito ad ultimare uno dei suoi capolavori architettonici. Per sbaglio calpestai con i piedi la muraglia della fiancata est, quella che serviva a contrastare le violente incursioni dei mongoli di Gengis Khan o degli Unni di Attila. Quella fu la prima volta che vidi mio zio irritarsi. Non in maniera esagerata, ma evidente. Non so se per il fatto di aver abbattuto le mura del versante più pericoloso. Magari se avessi abbattuto la fiancata ovest, quella dalla quale rientrava Carlo Magno dalle sue vittoriose battaglie, non avrebbe reagito così. Fatto sta che quella volta mi rimproverò, soprattutto quando tentai di ripararla. Probabilmente non dosai correttamente nelle percentuali giuste la concentrazione di acqua nella malta di sabbia.
Ma quella non fu l´unica volta in cui lo vidi arrabbiarsi.
In un´altra occasione riuscii a scuotere la sua marmorea irremovibilità emotiva e a “forzarlo” a mostrare un qualcosa di espressivo che andasse appena oltre uno spazientito “Patrizia per favore, basta!!”. Pronunciato in maniera sobria e contenuta.
Patrizia é mia zia.
Comunque. L´occasione in questione riguarda una partita a scacchi. Da premettere che lui era stato il mio mentore. Mi insegnò come disporre le pedine sulla scacchiera, mi spiegò le regole e i movimenti e, naturalmente, lo scopo del gioco. Che io ovviamente non afferrai. I miei giochi prevedevano solitamente obiettivi piuttosto semplici. Del tipo “ammazza e distruggi” dei videogiochi, o un “vinci e conquista” del Risiko, o ancora un “costruisci ed espandi” del Monopoly. Ma l’idea dello “scacco matto” mi sfuggiva. Non si tratta di uccidere il re, ma di costringerlo alla resa. Il re, tecnicamente, non lo puoi uccidere, o almeno non come le altre pedine. E questa cosa faticava a entrarmi in testa.
Dopo svariate partite cominciai a capire un po’ lo scopo, ma il tendere le varie trappole al re mi risultava ancora troppo difficile. Mio zio Thomas non si sarebbe mai permesso di lasciarmi vincere, come facevano ogni tanto altri zii quando giocavo a carte con loro. Pertanto continuavo a perdere. Le tentavo tutte: assalti, appostamenti, imboscate. Non riuscivo mai a vincerne una. Ogni partita era come guardare giocare Kasparov contro una capra tibetana. Forse un po´ “zen”, o con quel tocco di spirituale che solo il Tibet può richiamare, ma pur sempre capra.
Una volta però, mi ritrovai la vittoria in mano. Dopo un lungo ed estenuante assedio riuscii a fargli fuori quasi tutta l’armata. Il re era rimasto solo con pochi guerrieri fidati e qualche contadino con la zappa in una mano e la pagnotta nell’altra come scudo. Mi ricordo che si arrese, senza che mi lasciasse arrivare a dichiarare lo scacco matto, che tra l´altro, a quel punto del gioco, tardava ancora a rientrare tra gli obiettivi delle mie mosse. Rimase visibilmente infastidito dal fatto che, secondo lui, io non avessi giocato effettivamente secondo lo scopo del gioco, bensì guidato da una furia omicida cieca e disordinata. In pratica, gli avevo massacrato un esercito senza mai puntare al re, che, di fatto, era l´unico che non si poteva ammazzare. Per quello non rientrava nei miei obiettivi. Pertanto lui continuava a sostenere che la mia vittoria non era pienamente valida e che dovevo giocare più di astuzia e strategia. Insomma, mi tolse il piacere della mia unica (seppur mezza) vittoria. Ma mi permise di capire finalmente lo scopo del gioco: tentare di uccidere il re, senza doverlo uccidere veramente e, possibilmente, senza troppo spargimento di sangue. Un lavoro alla James Bond. Uno scopo troppo raffinato per le mie capacità intellettive di allora. E attuali. Ma col tempo ci arrivai. Cominciai a giocare meno “al massacro” e a dedicarmi più alla tattica e alla strategia. Infatti, non vinsi mai più contro di lui. Però imparai un po´ come si gioca.
Ci tengo a precisare che mio zio Thomas non era una persona grigia e scontrosa, come potrebbe qualcuno interpretare. Al contrario, aveva i suoi momenti di ilarità o in cui gli scappava un sorriso o una risata, ma il tutto era sempre piuttosto contenuto. I suoi momenti di buon umore coincidevano spesso con il “momento pipa”. Altra cosa che io avevo visto solo nei film polizieschi in tv. Quando fumava la pipa era sempre piuttosto rilassato e, se nel frattempo non leggeva un libro o un giornale, si divertiva a mostrarmi tutti gli attrezzi e l’equipaggiamento vari del fumatore di pipa. Si divertiva a spiegarne le funzioni, come si pulivano e le varie differenze nelle forme delle pipe. In generale, si poteva affermare che la condivisione della sua conoscenza gli risultava un´attività alquanto gradita. Solo che l´odore del tabacco bruciato risultava ancora un po´ sgradito a me. Pertanto quando fumava la pipa mi tenevo generalmente alla larga.
Col tempo lo zio Thomas cominciò a venire a trovarci sempre più di rado. L´ultima volta che vidi mio zio fu durante un mio viaggio in macchina a Monaco con amici. Ovviamente, per l’Oktoberfest. Dopo due giorni di birra nei boccali da litro, salsicce, canti popolari incomprensibili, “Prosit” e code interminabili fuori gli stand sotto la pioggia, decisi di contattare mia zia e di prolungare la mia vacanza di una settimana, dato che i miei amici dovevano rientrare.
Durante quei giorni mia zia mi portò in giro a visitare Monaco. E un pomeriggio decise di portarmi dallo zio Thomas. Ormai lei viveva da Wolfgang, il suo attuale compagno, dove ero ospite anche`io. E mio zio da solo in un piccolo appartamento da qualche parte.
Ricordo che lo trovai nel suo studio, ricurvo e concentrato come sempre, a leggere qualcosa sulla scrivania. Mia zia non mi aveva accennato nulla in proposito, ma lo spettro depressivo aleggiava su di lui come una nube scura e sinistra. Ricordo che mi fece molta tenerezza notare la sua barba leggermente incolta e ingrigita. I capelli bianchi, che aveva sempre avuto sin da quando lo conobbi la prima volta, erano diventati più numerosi e disordinati. La sua voce si era abbassata di qualche tono, diventando ancora più buia e profonda, e il suo sguardo si era “arricchito” di una nuova sfumatura di umile rassegnazione.
Lo salutai con un sorriso. Sembrava contento di vedermi, per quel poco che riuscì ad esprimere. E non sembrò neanche scioccato dai Dreadlocks lunghi che portavo a quei tempi e dal mio aspetto da frikkettone-cazzeggione dedito al consumo di marijuana. Ricordo che non parlammo tanto e non avemmo il tempo di sfoderare ricordi vari. Ma ricordo che fece degli apprezzamenti sulla maglietta che indossavo. Era una t-shirt nera con una frase di E. A. Poe stampata sopra. “Chi sogna di giorno vede ciò che chi sogna solo di notte non puó vedere”. O qualcosa di simile. Non ricordo bene. Mi tolsi la maglietta e gliela regalai seduta stante. Volevo ringraziarlo per avermi insegnato a giocare a scacchi. Lui rimase molto sorpreso ed emozionato. Non se lo aspettava. Non aveva espresso quell´ apprezzamento con la speranza astuta e ruffiana di ottenere quella maglietta. L´aveva sparata così, forse per rompere il silenzio. E io lo sapevo bene.
Si alzò dalla sedia e andò a cercare un libro tra gli scaffali della libreria. Era una libreria grande. O meglio, l´intera stanza era una libreria, con la scrivania riversa verso uno degli angoli e circondata da cultura stampata ad inchiostro su un numero non quantificabile di pagine di ogni dimensione e forma, racchiuse da copertine altrettanto diversificate e posizionate ordinatamente tutt´intorno. Su scaffali in legno moderno.
Ma sembrava cercasse un libro in particolare. Poi lo trovò. Era un libricino di filosofia piccolo, di quelli tascabili. In tedesco. Sapeva bene che non avrei potuto leggerlo allora, ma me lo diede comunque. Apprezzai molto il gesto, lo trovai tipico di lui. Lo accettai di buon grado con la promessa che un giorno avrei imparato il tedesco e lo avrei letto per intero, invece di provare a farfugliare goffamente solo il titolo. Era una promessa da marinaio, che avrei mantenuto solo a metà, ma credo che lui sapesse bene anche questo.
Ci salutammo senza troppi convenevoli e poi non lo vidi più.
Anche il libricino non ce l´ho più.
Ma un po´ di tedesco l´ho imparato. Forse, chissà, anche grazie a lui.