«Dopo 11 anni da papà confermo: trasferirci a Berlino fu la scelta giusta»
Simone Barilla si è trasferito da Genova a Berlino 11 anni fa ancora studente con la sua ragazza incinta. Ora ha due figli e vive felicemente a Berlino.
«Quando a inizio 2007 fu chiaro che la mia ragazza era rimasta incinta, le possibilità che avevo davanti in Italia erano piuttosto scarse. A 23 anni io e 25 lei, ancora studenti, non avevamo nessuna possibilità di sopravvivere a Genova: pensammo che in Germania sarebbe stato più facile a livello economico. Peraltro lei, per quanto ucraina, viveva in Germania fin da quando era bambina». Simone Barilla oggi ha 34 anni e da quando ha deciso di lasciare l’Italia per mettere su famiglia a Berlino di anni ne sono passati 11. «Sono stati anni di adattamento e sacrifici, ma anche di sorprese. È stata la scelta giusta. Qui a Berlino ho un ottimo lavoro nel marketing. Mi permette una vita che l’Italia non mi potrebbe mai offrire. L’incontro con Anna è avvenuto a Genova nel 2005, mentre ero iscritto a Scienze Internazionali e Diplomatiche. Lei era una studentessa Erasmus ucraina trapiantata in Germania dopo la Wende, la “svolta” che portò al crollo del regime totalitario della Germania Orientale. Insomma, è “la classica storia in cui la straniera si mette insieme ad un locale”, con l’unica differenza che Anna ora è mia moglie e la madre dei nostri due bambini. Lei e il mio primo figlio Leonardo, che ora ha 11 anni, sono il motivo del mio trasferimento in Germania».
Il trasferimento a Berlino
Simone e Anna si trasferiscono a Berlino nel 2007. «I miei primi anni qui sono stati molto intensi. Per due anni ho fatto avanti e indietro per finire l’università a Genova. Nel frattempo mi iscrissi a un paio di corsi di lingua che non mi aiutarono molto: classi pienissime, orari senza senso. All’epoca riuscivamo a campare in tre con circa €1000 al mese. Nel 2008 ho svolto uno stage, ovviamente non retribuito, presso l’Ambasciata italiana a Tiergarten: esperienza ottima che mi fece capire che io ed il mondo della diplomazia eravamo due rette parallele che non si sarebbero mai incontrate. I miei genitori mi hanno aiutato per un po’ di tempo e per i primi 3-4 anni non si sono arresi all’idea di farmi tornare indietro. A me però questa vita avventurosa e di sacrifici non dispiaceva affatto: gli anni più belli che ho vissuto a Berlino sono quelli in cui in casa entrava il minimo sindacale. Ho ricordi di estati meravigliose, il verde, il sole tra gli alberi, la notte che non arriva mai ed inverni bianchi. A Genova non nevica mai, quindi era tutto molto esotico. Amavo anche quei mercatini di Natale che invece ora quasi detesto».
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I primi passi nel mondo del lavoro tedesco
«La “vera” vita è cominciata con il mio primo tirocinio. Nel 2008-2009 il salario orario minimo di 8,50€ poi introdotto in Germania era fantascienza e le startup offrivano stage di 6 mesi a 478€ al mese netti. Gli studi non mi avevano dato nessuna specializzazione, il mio livello di tedesco era ignobile, poi qualcosa nel mio cervello fece “click” e cominciai a parlarlo sempre meglio. Nei due anni successivi ho imparato a fare quello che poi avrei fatto in futuro: marketing. Mi posso ritenere figlio delle startup. Ho sputato sangue, sono stato sottopagato, ho avuto una specie di esaurimento, sono stato licenziato e ho visto aziende fallire. Ho fatto pubblicità per un po’ di tutto. Ho cominciato con campagne da poche centinaia di euro e sono arrivato a produrre spot televisivi e spendere milioni di euro l’anno. Attualmente sono Chief Marketing Officer per un’azienda che produce smart home devices. Abbiamo appena rilasciato il primo prototipo sul mercato tedesco. Adoro il mio lavoro, anche se non sempre si incastra con la vita familiare».
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Crescere una famiglia lontano dall’Italia
«I primi tempi sentivo i miei genitori ogni giorno su Skype. Volevano vedere il bambino e parlare con me: avevo la sensazione di essere come uno di quei reporter in un posto remoto e che stessi raccontando loro com’è la vita in un mondo alieno. “Simo, ma ci sono le fette biscottate a Berlino?”, “Non ci sono i Pan di Stelle? E tu cosa mangi la mattina?”. Mio figlio Leonardo è riuscito a far fare a mia madre quello che a mio padre in 25 anni di matrimonio non è mai riuscito: farla uscire dai confini italiani e – attenzione – farla sedere per la prima volta su un aereo. I primi attacchi di nostalgia sono arrivati tutti insieme un paio d’anni fa. Massimo, il mio secondo figlio, non ha parlato una parola di italiano per più di un anno, rendendo impossibile per i miei genitori capirlo e giocare con lui. Adesso parla italiano come un tedesco. Anche Berlino non è più quella di un tempo e se all’inizio la scarsa luce ed il freddo pungente dell’inverno berlinese mi sembravano esotici, adesso mi buttano giù: sono diventato meteoropatico. Ho ricevuto un paio di offerte in Italia, ma le ho rifiutate tutte. Non voglio tornare: è troppo tardi, non posso e non voglio. Mi rendo conto che sono cambiato negli ultimi 11 anni. L’essere umano solitamente reagisce ai trasferimenti in due modi: o si adatta al nuovo ambiente e ne diventa parte o si aggrappa a persone, cose che gli ricordano casa e rimane con la “testa” nel proprio paese. Uno considera il nuovo paese “casa”, l’altro invece un posto dove si è di passaggio. Io credo di far parte del primo gruppo. Ma non solo, ho due figli che vanno a scuola e all’asilo, hanno amici e non voglio strapparli da qui. Ho un ottimo lavoro e amici a cui voglio bene. Berlino non è perfetta ma è diventata la mia casa più di quanto lo sia mai stata Genova».
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