Dietro una tela di Berlino. All’epoca del Muro.
Dietro una tela di Berlino. All’epoca del muro. Un racconto
di Valentina Moretti
Un quadro in uniforme
-Questo quadro è davvero… non saprei, ha qualcosa di molto interessante- disse Grisha, rivolto a Lena.
-Già, non è male. I colori, tra l’altro, s’intonano con il nostro divano. Perché non chiedi quanto costa? Tu che puoi…
-Entschuldigen Sie mich, wie viel kostet das?
Grisha risfoderò un tedesco, studiato all’università di Mosca, che da anni non parlava, ma che da tanto desiderava rinfrescare- per questo aveva organizzato una gita a Berlino con la fidanzata. Un ragazzo dai sette orecchini al lobo sinistro gli rispose che con 350 euro avrebbe potuto portarselo via. Affare fatto.
-Andiamo all’ultimo piano a berci sopra!- disse a Lena, con il quadro sottobraccio. Adorava quella che lui chiamava “dom artistov”(la casa degli artisti), e che gli era capitato per caso di visitare anni prima, quando aveva fatto un giro per l’Europa con degli amici. Era un edificio a 5 piani sulla Orianenburger Strasse, occupato da giovani pittori e squatters, ma con gli anni, oltre ad ospitare una grossa esposizione di quadri di artisti di strada, s’era tramutato in un locale di tendenza dove bere un aperitivo. Di quel posto adorava il fatto che le opere fossero buttate lì casualmente, appoggiate a terra, che ci fosse arte dappertutto- sempre che di vera arte si trattasse. Eppure, certe caramelle accatastate o fotografie scabrose del Moma di New York, a suo avviso, non avevano nulla da invidiare a questi onesti dipinti di dilettanti.
-L’arte che mi emoziona è quella che si scopre lentamente, che si sorprende mentre è assopita, e allora inizia a parlare, danzare. Lena, guarda la posizione della mano sinistra della donna. È così elegante, sensuale. Sono i dettagli, che fanno la differenza tra una cosa bella e l’arte- disse Grisha, rimirando il quadro appoggiato sul comò della camera d’albergo. Raffigurava una donna in uniforme sovietica, in un appartamento dalla luce fioca. La casacca verde era aperta, la cintura slacciata, la camicia sbottonata a mostrare il decolletè. La giovane donna aveva i capelli sciolti, ondulati, castano chiaro, e non portava il cappello. Era adagiata su un sofà in posizione obliqua; si reggeva con il gomito destro al bracciolo, giocando con un cravattino tra le dita, e guardava lo spettatore con un’espressione gioiosa e intrigante, di sfida. Una lampada da tavolo le illuminava il viso, creando un sapiente gioco di luce e ombra con le pieghe dell’abito allentato. La sensazione che il quadro suscitava era di provocazione e libertà, come se quella donna bella e sensuale, nel suo infrangere la compostezza, esprimesse la volontà di essere se stessa e non una serva del sistema- cosa che poteva accadere soltanto la sera, nella quiete del suo appartamento privato.
-Sono sempre più convinto che il dipinto nasconda una storia. Questa donna mi guarda come se volesse raccontarmi qualcosa- ripeteva Grisha. Quando, il mattino dopo, rigirandolo, vi trovò sul retro una scritta in russo, che diceva: “kuda ty propala, Avdotya moya?”, “dove sei sparita, mia Avdotya?”, la sua curiosità arrivò al punto da farlo ritornare alla casa degli artisti per chiedere spiegazioni. Il ragazzo con gli orecchini, che gli aveva venduto il quadro, non c’era. Grisha chiese di lui, gli dissero che sarebbe arrivato più tardi. Del quadro nessuno sapeva nulla.
Tornò alla casa intorno alle sette di sera. Finalmente trovò il ragazzo al secondo piano.
-No, non l’ho dipinto io- gli spiegò. Lo portò qui alla casa un uomo sulla sessantina, qualche mese fa, proponendoci di venderlo.
-Tutto ciò che le chiedo, è di mettermi in contatto con l’artista- disse Grisha.
-Non possiamo fornire i dati personali senza autorizzazione, dovrei provare a chiamare quel signore e chiedere se…
-La prego, vorrei solo fargli qualche domanda- insistette lui. Ottenne finalmente il numero di telefono di un certo Hans. Lo chiamò poco dopo, ma l’uomo non si mostrò molto disponibile ad un incontro. Disse di essere molto occupato, e che quel quadro non aveva un gran valore, perciò non era necessario perdervi tempo.
-Ma perché ha scelto di ritrarre una donna in uniforme russa? Risale al tempo dell’occupazione dell’Armata Rossa a Berlino, non è così? Che storia c’è dietro?
-Preferisco non parlarne- rispose Hans in modo secco. Anche in questo caso, Grigorij dovette insistere a lungo, fino a che l’uomo, spazientito, gli concesse di incontrarsi vicino ad Alexander Platz il giorno seguente. Gli raccontò una storia che lo lasciò sbalordito.
-Dipinsi il quadro negli anni ’70, per una donna.
-Una donna russa. Avdotya, non è così? Ho visto la scritta in russo dietro al dipinto. La conosceva bene?
-Si… esattamente. Non era una modella occasionale- rispose Hans, e il suo volto si adombrò. Aggrottò le sopracciglia scure e si passò una mano tra i capelli d’argento. La vidi un giorno a Berlino est, durante una parata militare di soldati russi. Aveva un volto che mi catturò come accade con certi pesci, quando vedono luccicare nel riverbero dell’acqua un oggetto metallico. Il suo viso riluceva. Era forse per quegli occhi chiari, forse per i lineamenti spigolosi, per la durezza e insieme dolcezza che lasciava trapelare. Fu soprattutto per la bocca, dagli angoli impercettibilmente protesi verso l’alto, in un eterno sorriso che si prendeva gioco della vita. La rincorsi. Avevo ventitré anni e stavo seguendo la carriera di mio padre di farmacista, ma il mio sogno era dipingere. La fermai con la scusa di volerle farle un ritratto. I russi mi allontanarono immediatamente. Cercai di protestare, ma fu lei a venirmi incontro e dirmi, in un tedesco dal forte accento russo, lasciandomi senza parole: “Mi troverai venerdì, verso le sei. Al caffè Shwarz”. Fu così che cominciò la nostra relazione. Avdotya era figlia di un colonnello di San Pietroburgo, che durante la Guerra aveva combattuto valorosamente come partigiano e liberato Berlino dal nazismo. Il padre le aveva trovato un posto nell’ufficio dell’Armata Rossa a Berlino, così già a 19 anni si trasferì qui. Nei suoi tre anni di servizio, non aveva fatto altro che sognare la Neva, di far ritorno al suo paese. “Certe sere di marzo il fiume, ancora ghiacciato, si tingeva di violetto, altre volte il suo biancore si punteggiava di brillantini che accecavano, e d’estate non riuscivo a separarmi dal suo grigio azzurro. Non potrei desiderare altro che stare a osservare quel fiume che cambia, ma che resta sempre nello stesso posto, come una mutevole certezza”.
Per circa un anno feci qualunque cosa per incontrarmi con lei. Poiché abitavo a Kreuzberg, lontano dal muro, e lei proprio di fronte ma ad est, certe sere feci delle pazzie che solo la giovane età poteva consentirmi. Più di una volta scavalcai il muro. Puntualmente le guardie di frontiera mi fermavano e mi interrogavano, chiedendomi perché non passassi dalla frontiera, ma era lungo e complicato, si trovava molto lontano, e la notte non avrei trovato modo di tornare indietro a piedi. Lei, naturalmente, non poteva venire a trovarmi ad ovest. La mia famiglia l’avrebbe accolta con entusiasmo, mentre io trovavo diffidenza tra i soldati russi, perciò eravamo costretti a nascondere il più possibile la nostra relazione. Suo padre era tradizionalista e non avrebbe mai permesso che Avdotya sposasse un tedesco della Berlino ovest. Sapevo che tra noi sarebbe finita in maniera dolorosa, ma non avrei mai immaginato fino a quel punto.
-Cosa accadde?- chiese Grisha, afferrando nervosamente la tazza di caffè.
-Fu colpa di quel maledetto quadro. Per questo me ne liberai non appena trovai a chi affidarlo per esser venduto. Le avevo promesso un ritratto, e tentai di eseguirlo, seppure non ci vedessimo ogni giorno e non avessimo molto tempo per le pose. Inizialmente facevo delle bozze su carta, che portavo al di là del muro, ma venne il momento in cui, per rifinire la tela, divenne necessario che lei venisse da me. Non potevo portare ad est il cavalletto, la tela e i colori ad olio, perché quel carico mi avrebbe impedito di scavalcare il muro. Avdotya si convinse di passare a ovest. Mi sentii in colpa per molto tempo, dopo ciò che accadde. Avevo insistito io per ritrarla! Eppure, a mente lucida, posso affermare che non tentò quella follia soltanto per il quadro. A guidarla era qualcosa che cresceva nel suo petto, nella sua indole infelice e ribelle, che trasudava dalla sua pelle opaca e nivea: il desiderio di infrangere le regole, di strapparsi di dosso l’uniforme che il padre le aveva dipinto addosso sin dall’infanzia. Fu per quel motivo che la ritrassi con l’uniforme, ma sgualcita e aperta- nell’atto di toglierla, una volta per sempre. Resi eterno l’attimo in cui Avdotya si liberava non solo dell’abito dalla cinta stretta, ma di tutto ciò che l’aveva resa un prodotto delle convenzioni sociali. Sapevo che un giorno si sarebbe ribellata, e lo sapeva anche lei. I soldati russi la scopersero oltrepassare il muro attraverso un varco, assieme ad altri fuggiaschi, e l’arrestarono. Questo lo appresi molto tempo dopo. Per settimane mi disperai, non trovandola più in nessun luogo e non potendo contattarla. Quando raggiunsi la sua abitazione ad est, i soldati non vollero rivelarmi dov’era finita. Forse fu deportata in Siberia, chi può dirlo. Passai i successivi anni a cercarla, attesi con rassegnazione la caduta del muro, che arrivò troppo tempo dopo. Inizialmente perfezionai maniacalmente il ritratto, perché non volevo perdere nessun dettaglio del suo volto, delle mani, dei capelli; non volevo che Avdotya sfuggisse dalla mia mente e divenisse un’immagine sbiadita nella memoria. Successivamente, il dolore di ritrovarla ogni giorno con me, sospesa al muro del mio appartamento come una condannata, mi lacerò a poco a poco sino a rendermi insopportabile la sua vista e il suo sguardo vivace. La chiusi in un armadio, e vi rimase per altri anni a farsi rosicchiare dalle tarme, non vista ma sempre presente nel mio dolore. Infine, quando cambiai casa per sposarmi, decisi di liberarmene, quasi che due donne non potessero vivere nello stesso appartamento. Non sapevo che farne, e lo regalai ad un amico. Seppi che aveva fatto la stessa fine, accantonata in un solaio. Fu allora che gli chiesi di restituirmela e provai a venderla. Pensai che, tutto sommato, nella casa d’arte Tacheles sarebbe stata valorizzata maggiormente, e forse avrebbe trovato un ammiratore. Sono lieto del fatto che lei l’abbia apprezzata e abbia intuito che il volto oleoso di Avdotya, attraverso le pennellate secche, non solo parla, ma grida.
-Questa storia è…eccezionale!- esclamò Grisha, rapito.
Tornò all’albergo pervaso di sensazioni entusiastiche.
-Sento che è giunto il momento in cui scriverò qualcosa di valido, Lena!- disse alla fidanzata, ispirato.
Qualche mese dopo, a Mosca, il suo racconto “L’amore è ad est” venne pubblicato su un’importante testata e ispirò uno sceneggiato televisivo di grande successo, che andò in onda sul Pervij Kanal, il principale canale pubblico russo. Era narrata, a puntate, la tormentata storia vera dell’amore tra un aspirante farmacista della Berlino ovest e una soldatessa russa della Berlino est, il tutto supportato dal fascino di un quadro misterioso ma esistente, in cui si poteva cogliere lo spirito della loro relazione.
Grigorij si preparò ad essere intervistato in diretta su Rossiya 1. Il pubblico smaniava di conoscere l’autore del racconto, tanto più che era ispirato ad una storia vera. Era pronto anche ad esibire il quadro in diretta, che avrebbe in tal modo acquisito un valore inestimabile. Il successo l’aveva travolto in maniera così improvvisa, che non si era neppure curato di avvertire Hans, tanto più che aveva perduto il suo contatto telefonico; ugualmente, aveva intenzione di citarlo come autore del quadro.
-Ed ecco, finalmente possiamo vedere il vero protagonista della storia tra Friederich e Ekaterina: il dipinto della soldatessa in uniforme!- disse l’intervistatrice, rivolta alla telecamera. –Grigorij, la prego, ci spieghi qualcosa su questa straordinaria opera di cui tutti parlano, e su come ne è entrato in possesso.
-L’ho acquistata a modico prezzo alla casa degli artisti di Berlino, la Kunsthaus Tacheles. Mi colpì immediatamente quella donna che mi fissava, perché nel suo gesto di togliersi l’uniforme, aveva un piglio ribelle. Sembrava soffrire, mi invitava a scoprire la sua storia. Fu allora che indagai, intervistando colui che aveva messo in vendita il quadro. Quest’uomo ne è anche il pittore, vive a Berlino. Mi raccontò la sua storia, mi narrò della relazione con Katya, avvenuta negli anni 70 (per privacy ho usato degli pseudonimi per i protagonisti della mia storia) e delle difficoltà di incontrarsi, passando da ovest a est di Berlino- perché anche in quella direzione non era semplice oltrepassare il muro- relazione culminata nella realizzazione di un ritratto di Katya da parte di Friederich. Nel dipinto, ultimato nel 1978, possiamo notare meticolosità nella raffigurazione, fin nei più piccoli dettagli, dipinti finemente. Katya indossa la tipica uniforme sovietica dell’epoca, ma la porta a modo suo, in maniera non convenzionale: la camicetta ha i bottoni slacciati, il cravattino è nella mano destra. Attraverso la sua posa vediamo come…
-La devo interrompere, signor Lebedev, chiedo scusa. A causa di un problema tecnico, dobbiamo rinviare l’intervista di qualche minuto. Ci vediamo dopo la pubblicità. Grazie.
Grigorij guardò l’intervistatrice con aria interrogativa.
-Mi scuso nuovamente, ma abbiamo appena ricevuto una telefonata anonima, dove dicono che… c’è un errore nel dipinto. Un’incongruenza cronologica. Il quadro non può risalire agli anni ‘70, perché la medaglietta appesa sul lembo sinistro della giacca della donna, nell’ingrandimento che abbiamo mandato in onda poco fa, è una commemorazione al Cinquantesimo giubileo della Grande guerra Patriottica (dal 1941 al 1945) dell’Armata Rossa. Ciò farebbe risalire l’uniforme agli anni ’90, cioè a 50 anni dalla guerra.
Grigorij la fissò sconcertato. Come aveva potuto non fare caso ad un macroscopico errore di quel livello? Come aveva potuto non indagare sul merito appeso all’uniforme fino a quel momento? Era il caso di chiarire al più presto l’equivoco. Imbarazzato, Grigorij chiese di rimandare l’intervista per prendere tempo, e abbandonò lo studio.
Il giorno seguente riuscì a ritrovare il numero di Hans. Non l’aveva mai del tutto perduto, bastava volerlo scovare. Hans non rispose per giorni, fino a che Grigorij trasalì nel sentire la sua voce al quarto squillo:
-Signor Hans, mi scusi per il disturbo. Sono Grigorij Lebedev, la chiamo da Mosca. Si ricorda di me? Mi ha venduto il suo quadro con la donna in uniforme.
-Ah, si, ora capisco. Certamente, mi ricordo.
-Innanzitutto, ci tengo ad informarla che qui in Russia uno sceneggiato ispirato alla sua storia sta andando in onda con successo. Mi sono permesso di scrivere un racconto dopo ciò che mi aveva rivelato sul dipinto, ed è piaciuto molto ad una casa di produzione, dunque…
-Sono lieto che la mia storia sia servita ad uno scrittore. Del resto, avrei sempre voluto diventare giornalista o romanziere, perché ho grande fantasia, ma mi manca quello che lei possiede: la capacità narrativa, l’abilità prosaica. Scrivo in maniera grossolana ed elementare, e…
-Come sarebbe a dire, fantasia? Vorrebbe dire che… lei ha inventato tutto di sana pianta?
-Esattamente. Sono persino colpito del fatto che se ne sia accorto soltanto un anno dopo. Del resto, non era mia intenzione prendermi gioco di lei, sia ben chiaro. Non so neanche perché ho inventato quella storia su due piedi, in quel bar. Forse non ho avuto cuore di smorzare il suo entusiasmo, perché lei mi era parso così incuriosito, così convinto di aver trovato un dipinto interessante, che…
-Dannazione! Dunque non è vero nulla, non è mai esistita alcuna Avdotya! Niente di niente. Pazzesco! – disse Grigorij con rabbia.
-Proprio così. L’unico dettaglio reale è che sono davvero un farmacista e vivevo a Kreuzberg. Per il resto…mi spiace deluderla. La vera storia del dipinto è talmente banale e di basso livello da non meritare una spiegazione.
-Le chiedo di raccontarmela ugualmente. Me lo deve!
-Comprai quel quadro per sfinimento. Me lo vendette un mio conoscente, un tossico negli anni 90, per comprarsi una dose. Non ho idea di chi l’abbia dipinto e perché, forse un russo, data la scritta sul retro. Tutto qui. Se posso permettermi di chiederlo, come si è accorto che mentivo?
-Ho notato un’incongruenza storica nella medaglietta appesa all’uniforme della donna. Il quadro non può essere degli anni 70, in quanto quel tipo di medaglia commemorativa è stata coniata negli anni ‘90.
-Meraviglioso. La medaglietta! Ecco cosa mi ha tradito. Non vi avevo mai fatto caso, e poi non sono un grande conoscitore della storia del suo Paese.
-Hans, non so più che dirle. Chiedo scusa. Sono turbato. Lei è un farabutto, nient’altro.
-Non sia così perentorio nel giudicarmi. In fondo deve a me il suo successo. Che cosa importa se quello in cui ha creduto non è che un’invenzione? L’autenticità è il più grande miraggio del nostro secolo. Credere, soltanto credere potrà salvare l’uomo. Non è importante che ciò in cui si creda sia un’illusione o realtà, importa il luccichio.
-Ma di che parla?
-Il luccichio negli occhi e nella mente. Il vero tinge la vita, ma di grigio; la fantasia colora l’esistenza di pagliuzze gialle. Lo stesso che c’era negli occhi di Avdotya e nei suoi, quando l’ha ascoltata danzare nella sua mente. La storia logora e schiaccia le menti, la favola le fa volteggiare. Lei, per qualche mese, ha vissuto sognando, e non è la cosa più deliziosa al mondo?
*Valentina Moretti, : interprete e scrittrice, è l’autrice del blog Nonsolomatrioske
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