Da Cannes a Berlino: “Amy”, la storia di Amy Winehouse come non è mai stata raccontata
Love is a losing game One I wish I never played
Oh what a mess we made And now the final frame
Love is a losing game
Così cantava Amy Winehouse, fissando il pubblico attraverso il suo sguardo mascherato di nero. Sbavato, stonato, esagerato, come il trucco delle ragazzine che vogliono attirare lo sguardo sugli occhi, come accesso diretto alle loro anime tormentate.
“Amy” è il titolo del film documentario di Asif Kapadia, regista inglese di origini indiane noto per il suo documentario su Ayrton Senna. Il lungometraggio è una raccolta di filmati inediti, foto e interviste ad amici e parenti, che ripercorrono la breve vita personale e artistica della cantante.
Si parte proprio da Southgate quartiere periferico di Londra, luogo della sua adolescenza, quando si divertiva a cantare con le sue amiche, con tutta la freschezza e la spontaneità della sua giovane età. La Amy dalla faccia acqua e sapone i brufoli e la voce di una cantante Jazz professionista. I suoi miti: Tony Bennet, Sarah Vaughan e il gruppo rap Salt-n-Pepa.
La sua voce non passa inosservata e poco più che diciottenne firma un contratto con l’etichetta island/universal. Giovane, bella e piena di voglia di fare musica in un’intervista dirà che la depressione non sa nemmeno cosa sia, le basta suonare la sua chitarra per due, tre ore e il malumore scompare.
Punto cruciale della sua vita sono gli amori, questi uomini che dovrebbero essere “Stronger than me” per poterla proteggere o aiutarla a fare la cosa giusta, cosa che nemmeno suo padre da piccola era riuscito a fare. Gli amori che la distruggono, le tolgono tutto, le forze, la voglia di vivere ed anche la cosa più bella che possiede: la sua voce.
Un giorno le dicono che deve andare in Serbia a cantare “Black to black”, Amy entra ed esce dai centri di disintossicazione, è malata a causa dei danni provocati ai suoi organi interni dalla bulimia e dagli eccessi e non è in grado di esibirsi. Soprattutto di fare ciò che non ha voglia di fare, ossia cantare una canzone trita e ritrita diventata il suo più grande successo. Così, senza nemmeno che se ne rendesse conto la prendono di peso mentre ancora dorme e la caricano su un areo. Quando sale sul palco è ubriaca, priva di conoscenza, per niente in grado di stare in piedi, figuriamoci di cantare.
Quella raccontata è la storia di una giovane donna per niente in grado di sostenere un successo, di cui lei dubita di poter meritare. Spaventata dai fan, dalla fama, dai paparazzi, non c’è da meravigliarsi come si sia lasciata andare alle droghe e all’alcol, unico rifugio per non impazzire, come lei stessa afferma: “Non penso che diventerò davvero famosa, non penso che potrei gestire la mia celebrità, probabilmente impazzirei”.
“Amy” ridona una veste nuova alla defunta cantante, così spesso criticata e schernita dalla stampa e la televisione per i suoi eccessi, la sua capigliatura e i suoi ultimi fallimenti sul palco, mostrando un lato vulnerabile che i suoi cari non hanno saputo proteggere. Circondata da persone che approfittavano della sua generosità, come lo stesso marito Blake Fielder-Civil.
Il documentario, afferma il regista stesso, è una sorta di manifesto di una realtà di cui tutti sono complici. “Mi sento arrabbiato. Volevo che anche gli spettatori lo fossero!”. La sua intenzione infatti non è quella di mostrare la storia di una povera ragazza che soccombe allo star system, ma di mostrare un lato di Londra, che tutti passivamente accettano, condividono e non fanno nulla per cambiare.
La vera “Amy”, insicura, onesta, umile, spontanea e infinitamente fragile, come nella scena in cui si scioglie di fronte al suo idolo: Tony Bennet. “Devo ammetterlo, è la prima volta che lo faccio. Cantare insieme al mio idolo!”. Un Tony che la sceglie proprio per la sua voce jazz lontana e potente che lei fino alla fine non crede di possedere. “Mi dispiace, rifacciamola, non voglio sprecare il tuo tempo”.
Il documentario è una quadro sincero della vita dell’artista, la cui splendida voce continua a emozionare e a suonare in tutte le radio. Ma soprattutto ha la capacità di donare un lato umano e sensibile allo spauracchio che era diventato il suo esile corpicino prima di lasciarci per sempre, deriso e accolto quasi senza stupore da una massa che assisteva al crollo dell’ennesima vittima delle droghe e dell’alcol.
La musica è l’unica terapia che ho a disposizione per trasformare i miei fallimenti in vittoria.
Amy Winehouse
Foto © Fionn Kidney CC BY-SA 2.0
Amy, der Film
In Germania nei cinema dal 16 luglio 2015
In Italia dal 15 settembre 2015