Cannes, Divines di Houda Benyamina conquista la Quinzaine

Parecchi film hanno degli inizi scoppiettanti, pieni di promesse e di attese, ma si perdono dopo il primo quarto d’ora. Superati questi primi quindici minuti, resta da capire quanto di queste promesse verranno rispettate e se lo faranno senza perdere la grinta e la potenza iniziale. Poi ce ne sono alcuni con i quali è amore a prima vista. E la sorpresa cresce quando si supera anche la prima mezz’ora. Pensi: prima o poi crolla, prima o poi mi tradisce. Prima o poi finisce la magia. Poi si supera l’ora ed è chiaro che te ne sei innamorato a tal punto da non pensarci più, da lasciarti guidare e da perdonare anche un finale con qualche imperfezione. Divines, opera prima di Houda Benyamina è un film così, che si fa amare.

Adolescenza nelle banlieues. Il film narra le vicende di due adolescenti delle banlieues con un ritmo incalzante, senza alcun buonismo ma comunque con vari momenti comici, propri della leggerezza dell’adolescenza. Dai tratti decisamente femministi e politici per i temi che affronta quando tratta della distanza tra città e banlieue, Divines si spinge anche oltre, tra gli accampamenti Rom. In questa Quinzaine 2016 non è il primo film a trattare di adolescenza difficile (l’italiano Fiore, e Mean Dreams per citarne due). Difficile infatti è l’adolescenza di Dounia (Oulaya Amamra) cresciuta in un campo Rom, ai margini di un quartiere dove lo spaccio è all’ordine del giorno, musulmana, magrebine e con una madre che fa la prostituta. Ma Divines è anche un film sull’amicizia, quella tra due adolescenti: Dounia, per l’appunto, e Maimouna (Déborah Lukumuena), figlia dell’Imam locale. Il ritmo del film è scandito dalla forza viscerale emanata da Dounia, forza che ha le sue radici nell’umiliazione, nella povertà, e nella speranza di una vita diversa. Tanto diversa. A tal punto diversa da non accontentarsi di un lavoro qualunque o sottopagato, a cui la scuola sembra indirizzarle, ma poiché vengono dal nulla cercano quello che per loro è il massimo. Il denaro facile, tanto denaro, con cui comprarsi le scarpe da ginnastica alla moda o da poter spendere in patatine, M&Ms e sognando una Ferrari con cui conquistare i ragazzi. Il loro modello è Rebecca, ragazza che gestisce la piazza di spaccio locale (che a sua volta sogna di aprire un bordello in Thailandia).

Dounia e Maimouna, ma soprattutto Dounia, dalle fattezze ancora acerbe, dal carattere aspro di chi ce l’ha con tutto e tutti dalla nascita, di chi è abituato a vivere di espedienti e vuole dimostrare al mondo di essere, in qualsiasi modo questo “essere” sia, vivono a cavallo tra una furbizia già adulta e smaliziata, e le fantasticherie e i giochi tipici dell’adolescenza.

E questo già basterebbe a rendere il film interessante, se non fosse che diventa ancor più affascinante quando con l’elemento della danza si aggiunge un uso eccezionale dei corpi e dello spazio. Entra così in scena anche l’amore quando Dounia si imbatte in un ballerino di street, Djigui (Kevin Mischel, star dell’hip-hop francese, specializzato nel “popping”), che si esercita dopo il lavoro per entrare a far parte di un corpo di ballo vero. Qui la narrazione poteva scadere nei vari film di “danza e ragazzi di strada”, ma no. Non è un film sulla danza o di come la danza redima i giovani sbandati. La danza infatti viene ripresa e usata in maniera potente e affascinante, creando una tensione fuori dal comune tra i due, ma senza diventare mai elemento centrale o salvifico. Rimane invece elemento centrale la natura in bianco e nero con cui Dounia vede il mondo che la circonda. Come anticipato, il finale non è forse potente quanto sperato, ma tanto è bastato per far scattare la necessità di un applauso liberatorio da parte del pubblico della Quinzaine più che entusiasta.

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