A Berlino si celebra la Prima Guerra Mondiale con un’eccezionale mostra di foto d’epoca

Fotografare la guerra e utilizzare la fotografia come arma di (anti-)propaganda. Attorno a questi due concetti si articola la mostra Fotografie im Ersten WeltkriegFotografia nella Prima Guerra Mondiale, aperta a Berlino, al Museum für Fotografie, fino al 22 marzo.

La Grande Guerra è stata la prima guerra a poter essere definita mondiale a causa della sua dimensione intercontinentale e del coinvolgimento, tra gli altri, delle popolazioni indigene degli imperi coloniali: uomini reclutati come coadiuvanti delle truppe impegnate in battaglie nelle colonie, ma pure arruolati come soldati essi stessi e impiegati anche sui fronti europei. È stata però anche la prima guerra in cui si è fatto ricorso massiccio e sistematico alle potenzialità dei mezzi di comunicazione allora disponibili e in particolare della fotografia. La guerra inoltre ha portato a un’accelerazione nello sviluppo di nuove tecnologie che ha riguardato non solo le armi, ma anche, appunto, i media. A questi aspetti è dedicata la splendida mostra «Fotografie im Ersten Weltkrieg», che occupa l’intero primo piano del museo della Fotografia.

La mostra si snoda lungo nove nuclei tematici, che naturalmente finiscono per intrecciarsi tra loro e ricomparire come leitmotiv nelle diverse sezioni: fotografie ricavate da album privati, la fotografia come strumento di propaganda o di anti-propaganda nella stampa europea, la fotografia negli organi di stampa tedeschi (il materiale esposto arriva però da un archivio francese), le prime foto a colori e l’impatto del colore sul pubblico, fotografie del fronte interno (la vita e la mobilitazione di chi è rimasto in patria), fotografie dei territori scattate da aerei da ricognizioni, le immagini dei corpi e quelle dei monumenti distrutti in tutta Europa. L’ultima sezione è dedicata, infine, alla fotografia come strumento per preservare la memoria della guerra.

A colpire il visitatore è prima di tutto la compresenza di dimensione pubblica e privata. Foto scattate dai sodati per immortalare paesaggi esotici da mostrare un giorno alla famiglia in patria, ma anche immagini della vita da campo e in particolare nelle trincee e scene di battaglia, si affiancano senza soluzione di continuità a pagine di giornali, che offrono reportage e persino consigli ai reduci feriti sugli ausili da acquistare: presenti foto delle prime protesi e di modelli, per l’epoca all’avanguardia, di sedie a rotelle.

Altrettanto interessante è a entrambi i livelli, quello privato e quello pubblico, l’accostamento di fotografie scattate da soldati tedeschi o per giornali tedeschi e foto analoghe provenienti da altre nazioni. Colpisce la somiglianza delle espressioni del viso, della vita dei soldati in guerra e delle sofferenze patite, della morte che annulla la differenza tra i combattenti sui lati opposti del fronte.

Interessante è inoltre la compresenza di fotografie dal fronte interno e da quello sul campo di battaglia. La vita in trincea e quella in patria offrono esempi diversi di eroismo e, allo stesso tempo, di quotidianità, con i soldati che si rasano la barba come fossero a casa e bambini che “giocano” alla guerra.

La mostra si presenta poi anche come una intensa riflessione su come le immagini possano esser manipolate: nel senso materiale del termine, nascondendo o al contrario ponendo in risalto certi elementi (si pensi, per fare un solo esempio, al colore più o meno acceso del sangue); e in senso metaforico, fornendo l’immagine di un corredo interpretativo – il titolo, la descrizione, l’articolo – che ne determina il significato e impone una e un’unica lettura: un edificio bombardato o un corpo dilaniato e abbandonato in mezzo al fango valgono come monito contro la guerra o come esaltazione dell’eroismo e incitamento alla battaglia a seconda della nazione che diffonde quella fotografia. Non è un caso, quindi, che tutti i paesi belligeranti abbiano a un certo punto fondato enti per la propaganda e la censura delle informazioni e, appunto, delle immagini e promosso l’attività di fotografi professionisti da loro stessi “arruolati” e ideologicamente guidati.

A questa stessa dialettica soggiacciono anche le altre sezioni, e in particolare quella che si concentra sui corpi: fotografie scattate negli ospedali e ritraenti soldati dai volti tumefatti e dagli arti amputati documentano, alternativamente, l’assurdità della guerra e la necessità di vendicarsi e di annientare il nemico. Un ambito a sé è poi rappresentato dalle fotografie delle popolazioni indigene delle colonie, come si diceva in apertura coinvolte per la prima volta in un conflitto europeo: esse illustrano, con false pretese di scientificità, l’evidente inferiorità dei popoli africani e asiatici, i cui volti in primo piano vengono esaminati e misurati in base a una fisiognomica perversa e i cui abiti soddisfano la curiosità estetica del pubblico nei confronti dell’esotismo e allo stesso tempo “giustificano” – secondo la lettura del tempo – il senso di superiorità dell’occidentale e lo sfruttamento coloniale.

L’ultima parte della mostra, dedicata alle tecniche di preservazione della memoria attraverso raccolte private e archivi, è soprattutto un invito a riflettere su come l’atto del ricordo e le forme concrete che esso via via assume sono un processo attivo e mai statico: la fotografia è in questo processo particolarmente preziosa, in questa essa non è mai un sedimento immobile nella cultura, ma piuttosto un punto che genera infiniti e imprevedibili riverberi agli occhi di ogni osservatore e di ogni generazione.

Dove:

Museum für Fotografie
Jebensstr. 2 (fermata S+U-Bahn Zoologischer Garten)

Quando:

Fino al 22 marzo: martedì e mercoledì 10-18, giovedì 10-20, venerdì 10-18, sabato e domenica 11-18.
Catalogo edizioni E. A.Seemann, 24,95 €. Il prezzo dei biglietti è di 10€, ridotto 8€. E’ possibile comprarli online qui.

Foto © bbk / Staatliche Museen zu Berlin, Kunstbibliothek / Photothek Willy Römer