Come alcuni tedeschi cercano a volte di reprimere la gioia
di Giovanna D.
Berlino, domenica 28 ottobre, ore 18:30, linea del bus 200 direzione Potsdamer Platz. Sono seduta davanti, a circa cinque metri dal conducente. Sono al telefono con il mio ragazzo. Lui è in Italia, io in Germania per uno stage. È domenica, sto tornando a casa dopo un pomeriggio con amiche. Pioviccica, ma sono felice, mi sto godendo una di quelle giornate berlinesi ammantate di una serenità e tranquillità che poche volte penso si possano avvertire quando si vive in una grande città. Al telefono chiacchiero e rido. Lui non lo vedo da due mesi.
È una di quelle chiamate in cui ci si racconta cosa si è fatto e ci si stuzzica pensando a quando finalmente ci rivedremo. Siamo su Leipzigerstraße. Abbiamo da poco superato una fermata, eppure il bus accosta improvvisamente e apre tutte le porte. Mi guardo intorno disorientata e così fanno anche gli altri passeggeri. Ad un certo punto sento il suono di una porta che si apre dietro di me. È il conducente che ha aperto la sua cabina e, indicando la porta centrale, ma guardando la mia direzione, mi dice: “Aussteigen bitte”, ovvero “Per favore scenda”.
Sul momento non capisco. Non capisco che ce l’ha con me. Mi guardo alle spalle, ma tutti mi stanno osservando. Ce l’ha con me. Neanche il tempo di realizzare il tutto che già arrivano, in rapida sequenza, il secondo e terzo “Aussteigen Bitte”. Mi giro verso di lui e registro il suo sguardo nascosto dietro gli occhiali, sua finestra sul mondo al centro di un viso da cinquantenne biondino, ma spelacchiato. Percepisco subito tutto il suo fastidio nell’aver ascoltato, forse già da cinque minuti, una ragazza ridere e parlare, probabilmente a voce troppo alta per i suoi standard, mentre la sua domenica scorre sull’asfalto cittadino, ma non provo empatia, anzi mi spavento. E chiedendogli scusa, riattacco senza neanche salutare il mio ragazzo. Sto in silenzio per il resto delle fermate. Ho un po’ paura a guardami intorno. Penso che tutti mi stiano giudicando in malo modo. Quando scendo lo faccio di corsa, quasi ad evitare gli occhi di chiunque altro. Una volta sul marciapiede mi viene da piangere. È un pianto sia liberatorio per il momento di tensione lasciatomi alle spalle, sia un po’ di vergogna. Il conducente mi abbia dovuto trattare così. Poteva semplicemente riprendermi e dirmi di abbassare la voce, perché non l’ha fatto? A distanza di giorni ho metabolizzato l’accaduto, ma sono obbligata a ripensare ai contrasti di questa città, e in particolare dei suoi cittadini. A volte gentilissimi, a volte scortesi come non ci si potrebbe mai pensare. E, di conseguenza, valutare se allungare la mia esperienza a Berlino. Nessun paese né città sono perfetti, venendo dalla provincia di Caserta lo so bene, eppure certe storie non le avevo mai sentite, né tantomeno vissute, altrove.
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Photo Cover: © Leif Jørgensen – Bus linie 200 at the bus depot at Hertzallee behind Bahnhof Berlin Zoologischer Garten. – cc 4.0