Il gesto dell’italiano invitato ad una festa di tedeschi a Berlino
Avvertenza: quanto segue è un racconto di finzione. L’autore non si riconosce nel protagonista, ma in molte delle situazioni che ha vissuto e a cui, a volte, ha pensato di reagire come potrete scoprire più avanti (ma, per fortuna, non facendolo)
Il gesto dell’italiano invitato ad una festa di tedeschi a Berlino
di Cristoforo di Legno
“Komm Ludovico, schneller, wir sind spät! ”
Karin sfreccia sulla sua bici da corsa, una Peugeot degli anni 70’. Senza perdere velocità, si volta indietro verso di me e m’invita ad accelerare perché siamo in ritardo. Io arranco sui pedali della mia, una mountain-bike di seconda mano troppo piccola per la mia altezza. Per trovare nuove energie mi concentro sul culo di lei, ondeggiante sul sellino mentre percorre la pista ciclabile di Karl-Marx-Allee. Siamo diretti verso il centro di Friedrichshain, dove Karl, il migliore amico di Karin dà una festicciola pomeridiana.
“Così finalmente conoscerai Karl e tutti gli altri amici” mi ha detto ieri, piena d’entusiasmo nell’invitarmi.
Vivo a Berlino da due anni e dopo tante storie di una notte è da più di un mese esco solo con lei, che per giunta è berlinese, caratteristica non facile da trovare nella capitale tedesca. Grazie alla relazione con Karin il mio tedesco sta migliorando di giorno in giorno e oggi ho anche l’occasione d’entrar a far parte di un gruppo affiatato di giovani locali. Non ne posso più di frequentare italiani che se la fanno solo con altri italiani. Siamo sempre di più in città, una comunità che cresce in modo esponenziale e che sembra si stia ghettizzando come i Turchi arrivati negli anni 60′.
Neanche il tempo di riprendere fiato, dopo avere assicurato le bici a un palo e comprato un pacco di sei birre nello Späti più vicino, che già rischio di nuovo l’infarto nel salire le scale fino al quinto piano. Ci apre la porta un tipetto dal viso tondo, sulle cui guance grassocce cresce a chiazze una barba rossiccia; indossa degli occhiali da vista con la lente destra attaccata alla montatura grazie a del nastro adesivo. Si tratta proprio di Karl, che tutto raggiante ripete il mio nome scandendo a lungo ogni singola sillaba. Dal modo languido e affettuoso con cui saluta Karin e da come la guarda, mi sembra d’intuire una sua infatuazione relegata da tempo nella friend-zone. Cerco di non inciampare sulle decine di scarpe lasciate all’ingresso, mentre mi tolgo le mie. Karin è più veloce di me in questa operazione e si allontana a braccetto con Karl. Appeso alla porta noto il manifesto per la manifestazione, che si terra a breve a Berlino contro il TTIP (il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti). Sia Karl che Karin e gli altri amici, lì invitati, sono attivisti di una delle associazioni promotrici. Non faccio più di due passi nel corridoio, che ai miei calzini di spugna si attaccano strisce dense di polvere. Il pavimento di legno ne è pieno come se fosse un ripostiglio chiuso da mesi.
Faccio capolino nella Wohnzimmer, il soggiorno, dove tutta la combriccola siede attorno a un tavolino ricoperto di tabacco, bottiglie di birra e Schnaps. L’odore d’erba è fortissimo. Da un giradischi risuona, non troppo alta, della musica elettronica. Karin sta salutando a uno a uno i suoi amici e nessuno sembra curarsi della mia presenza sul ciglio della porta. Cerco d’ incrociare lo sguardo di lei per richiamare la sua attenzione, ma è persa nell’abbracciare una sua amica. Per nascondere l’imbarazzo osservo i vari manifesti di film affissi alle pareti. Leggo i nomi dei registi: Wim Wenders, Rainer Werner Fassbinder, Fatih Akin. Karl nota il mio disagio e mi presenta ad alta voce al gruppo. Questa volta le sillabe del mio nome e di ogni sua parola durano un’infinità. Capisco che sta cercando d’imitare l’accento italiano. Karin si ricorda di me. Mi guarda sorridendo e batte un paio di colpi col palmo della mano sul bordo del divano. Obbediente mi accuccio lì di fianco a lei. Inizio a rilassarmi e rispondo compiaciuto ai saluti cordiali di tutti. Mi sembra di sentire tra i vari “Hi”, “Hallo” e “Ciao” anche un “Mamma mia” seguito da una risata strozzata in gola.
Ce l’ho fatta: sono in un gruppo di tedeschi e non ci sono altri italiani, anzi sono l’unico straniero insieme a Yassir, un ragazzo giordano che ha fatto l’università qui a Berlino. Noto con invidia che interagisce con gli altri parlando un tedesco perfetto.
Prendo una Berliner e chiedo dove è l’apribottiglie. Un biondo palestrato che mi siede di fronte mi fa segno di passargli la birra e me la apre con l’accendino. Al mio Danke schön, risponde dicendo “Bongionno” e mi rivolge il comune gesto dell’italiano: quello della mano chiusa come una pera che usiamo di solito quando vogliamo chiedere: “Che vuoi?”. Mi sforzo nel sorridere e prendo delle patatine che Karl mi porge da un piatto. “Tut mir Leid, wir haben keine Pizza” Mi spiace, non abbiamo pizza, mi dice. Accenno una non convinta risata e cerco di fare conversazione con lui chiedendogli di cosa si occupa. Mi dice che lavora nel cinema, senza specificare esattamente cosa faccia, ma al momento è in pausa in attesa di un progetto che lo entusiasmi. Per pausa intende, come mi ha raccontato Karin, che è un Harz IV: chi prende il sussidio sociale in Germania. Ogni mese riceve un contributo economico e aiuti per il pagamento dell’affitto di questo appartamento, che essendo in una delle zone più richieste di Berlino gli permette d’ incassare altri soldi, affittandone in nero due camere a gente di passaggio in città.
“Und was machst du hier in Berlin?” Chiede cosa invece faccio io. Sto per rispondere, quando il tipo che mi ha aperto la birra esclama ad alta voce: “Er arbeitet für Mafia” – “Lavora per la mafia”. La battuta ha un successone: tutti iniziano a ridere e quelli più divertititi sono proprio Karin e Karl. Non mi resta che dare un lungo sorso alla Berliner, che faccio durare fin quando non smettono le risate.
L’amica seduta di fianco a Karin si rivolge a noi due e ci chiede come ci siamo conosciuti. Termina la domanda muovendo in modo così convulso braccia e mani che per un momento credo sia colpita da un attacco epilettico. Karin sta per rispondere e raccontare che ci siamo conosciuti a una proiezione del film Sacco e Vanzetti al cinema Babylon, ma viene interrotta da Yassir, che con voce rauca dice in inglese: “He did an offer she couldn’t refuse”. La sua parodia de Il Padrino scatena risate irrefrenabili di tutta la compagnia. Io gli rivolgo un piccolo applauso e mi alzo per andare in bagno. Yassir, incoraggiato dai complimenti e dalle pacche sulle spalle che riceve, prosegue nella sua performance e sento l’eco delle risate fin dentro al cesso.
Mi lavo e asciugo le mani, ma non esco dal bagno. Resto davanti allo specchio a guardarmi negli occhi. Ancora sghignazzate dalla sala, sempre più forti, mi sembra di percepire parole come Berlusconi e Bunga Bunga. Appoggiata sul lavandino c’è una spazzola. L’afferro e con forza pettino i miei capelli in un ciuffo ordinato, che cade sulla sinistra della fronte. Apro un mobiletto dove trovo un rasoio e della schiuma da barba. Mi rado i baffetti ai lati, lasciando folta solo la peluria centrale.
Quando ricompaio all’ingresso della sala con il braccio destro alzato e teso, Il frastuono delle risate scema man mano che vengo notato da tutti. Mi osservano a bocca aperta senza proferir parola. Solo Karin con voce tremolante dice: “Ludovico, was machst du?” – “Ludovico, cosa fai?”. Interpreto il silenzio che ne segue come il segnale per la mia entrata in scena. Sempre col braccio alzato, cammino nella sala facendo il passo dell’oca e mi avvicino verso di loro. “Ehi Deutschland! Nazi! Nazi! Heil Hitler!”, strillo per poi ridere in modo isterico. “Nazi! Nazi!”, continuo, finché sento Yassir urlare in inglese: “Man, are you fuckin’ crazy? What do you think to do?” Giro il mio viso ghignante verso di lui. Mi copro la testa con il cappuccio della mia felpa e nascondo metà della faccia alzando il bavero. Inizio a ripetere senza sosta come un forsennato “Allah Akbar!” e mi porto l’indice al collo imitando il gesto della decapitazione. Termino la mia esibizione piegandomi in due dalle risate.
Yassir è sbigottito e scuote la testa dicendo affranto: “No man, no!”. Qualcuno mi sta spintonando. È Karl, che saltato dal divano, mi urla con la sua voce stridula una sfilza di parole che non riesco a distingue tranne “Raus! Raus!”. Gli faccio segno che ho capito e mi allontano verso l’uscita della sala. Do un’ultima occhiata a Karin: è sconvolta. Ha gli occhi lucidi, che distoglie subito dal mio sguardo. L’amica l’abbraccia per consolarla e le sento dire: “Was für ein Arschlock,!” – “Che coglione!”.
Karl mi scorta alla porta e mi guarda in silenzio mentre mi rimetto le scarpe. Mantiene le braccia incrociate e un grugno d’indignazione e disgusto sul volto.
Apro la porta, ma prima d’uscire mi giro verso di lui e dicendo “Auf Wiedersehen”, fingo di fare il gesto dell’italiano per invece mostrargli con soddisfazione il dito medio.
Fine.
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Photo: © CC0 Pixabay