Primo Levi e “Le lettere di tedeschi”
Primo Levi pubblicò nel 1986 “I sommersi e i salvati”, dove descrisse le lettere ricevute dai tedeschi dopo “Se questo è un uomo”
Primo Levi pubblicò nel 1986 il suo ultimo saggio “I sommersi e i salvati”, in cui analizzò l’universo concentrazionario, troppo spesso banalizzato dai negazionisti della Shoah. Nell’ultimo capitolo discusse le lettere ricevute dai tedeschi dopo la pubblicazione della traduzione in tedesco di “Se questo è un uomo”.
“Se questo è un uomo”
Levi ha pubblicato “Se questo è un uomo” per la prima volta nel 1947, ma passò alla ribalta solo nel 1957 nella riedizione di Einaudi. Nel 1959 la casa editrice tedesca Fischer Bücherei acquistò i diritti del libro per una sua traduzione e Levi ammise che lo invase “un’emozione violenta e nuova, quella di aver vinto una battaglia”. Non avrebbe, infatti, mai immaginato che il suo libro sarebbe stato letto dalla stessa generazione di tedeschi che aveva permesso le atrocità dei campi di lavoro e sterminio. I “soverchiatori” e gli “spettatori indifferenti sarebbero diventati lettori”. Dedicò l’ultimo capitolo del saggio “I sommersi e i salvati” a comprendere come avrebbero reagito al suo racconto
quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana.
La traduzione di “Se questo è un uomo”
Levi non si fidò dell’editore tedesco, poiché non voleva che nessuna parola fosse cambiata di senso. Il traduttore Heinz Riedt, che conosceva perfettamente l’italiano, lo rassicurò. Riedt era un italianista e nel 1941 era stato chiamato alle armi, ma non sopportava il nazismo e così aveva simulato una malattia. Ciò gli aveva permesso di studiare letteratura italiana all’Università di Padova, dove aveva trascorso la sua convalescenza putativa. Lì era venuto in contatto con i gruppi antifascisti e dopo l’armistizio si era unito ai partigiani padovani, che combattevano nei Colli Euganei contro i fascisti di Salò e contro i suoi compatrioti. Sapeva cosa avrebbe rischiato nel caso di un suo arresto da parte dei nazisti, ma ciò non lo scoraggiò. Si sentiva più italiano che tedesco, più antifascista che nazista.
Lo scambio epistolare con Riedt e la prefazione
Tra Levi e Riedt vi fu un lungo scambio epistolare, in cui i due parlarono dei vari quesiti traduttivi. Levi aveva appreso il tedesco già sui manuali di chimica prima della guerra, ma, come diceva già nel cap. “Comunicare”, la sua lingua era per lo più Zeit- e Ortsgebunden, determinata dal tempo e dal luogo, molto più rozza del tedesco naturalmente parlato da Riedt. Levi non avrebbe mai voluto che la terminologia spietata del Lager, seppur inadatta al tedesco quotidiano, andasse persa. Essendo divenuto abile a scrivere in tedesco, l’editore gli chiese di scrivere lui stesso la prefazione, ma Levi rifiutò poiché gli sembrava di “esporre teorie ed interpretazioni della storia”. Per questo fece allegare alla pubblicazione una delle lettere scambiate con il traduttore, in cui diceva in particolare:
Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere.
“Le lettere di tedeschi”
Levi ricevette una quarantina di lettere dai lettori tedeschi all’inizio degli anni ’60. A scrivere furono più gli eredi di della generazione di tedeschi della seconda guerra mondiale, e per questo Levi non discusse di questa corrispondenza nel saggio “I sommersi e i salvati”. Nel capitolo ha, invece, approfondito altre sette lettere.
T.H. di Amburgo
Secondo il dottor T.H. di Amburgo i tedeschi non si accorsero che le dichiarazioni di Hitler erano mendaci, e che non era loro la colpa bensì del “traditore” Hitler. Proseguiva, inoltre, affermando che la Germania era all’epoca la “più amichevole verso gli ebrei nel mondo intero”. Levi replicò in maniera iraconda che al contrario delle sue affermazioni non vi era “pagina né discorso di Hitler in cui l’odio contro gli ebrei non venisse ribadito fino all’ossessione” e che era troppo facile scaricare la colpa sul “traditore”. A parte il caso di questo lettore, i suoi altri corrispondenti espressero idee ben diverse.
L.I. della Vestfalia
All’invito di Levi di capire i tedeschi la bibliotecaria della Vestfalia L.I. replicò così:
Lei deve credere quando Le diciamo che noi stessi non sappiamo concepire noi stessi né quanto abbiamo fatto. Siamo colpevoli. Io sono nata nel 1922, sono cresciuta in Alta Slesia, non lontano da Auschwitz, ma a quel tempo, in verità, non ho saputo nulla…delle cose atroci che si stavano commettendo, addirittura a pochi chilometri da noi.
M.S. di Francoforte
Anche M.S. di Francoforte non riusciva a capire come avessero fatto i tedeschi a non ribellarsi, ma sosteneva che fosse improprio parlare di tedeschi in senso generico. Levi controbatté dicendo che “una previsione prudente, probabilistica” era però possibile. Il lettore tedesco, comunque, concluse:
Vorrei con tutto il cuore che molti dei miei connazionali leggessero il Suo libro, affinché noi tedeschi non diventiamo pigri ed indifferenti, ma anzi, rimanga desta in noi la consapevolezza di quanto in basso possa cadere l’uomo che si fa tormentatore del suo simile.
I.J. di Stoccarda, W.A. dal Württemberg e W.G. di Brema
I.J. di Stoccarda espresse, invece, il suo stupore per il mancato odio di Levi nei confronti del popolo tedesco e quasi provò vergogna. Il medico W.A. del Württemberg sosteneva poi che non c’erano giustificazioni e che erano anche loro colpevoli, mentre W.G. di Brema diceva di provare vergogna e di odiare i criminali che fecero soffrire così tante persone come Levi.
H.L. della Baviera
La studentessa H.L gli raccontò di essere insorta violentemente contro un prete che sparlava degli ebrei, e contro la sua insegnante di russo, che attribuiva agli ebrei la colpa della rivoluzione di ottobre, e considerava la strage hitleriana come una giusta punizione. Molte persone in Germania non riuscivano ancora a credere alle atrocità commesse dal proprio popolo.
Hety S. da Wiesbaden
L’ultima corrispondenza di cui narra Levi è quella con Hety, che durò per molti anni. Il padre di Hety era un socialdemocratico, che perse il suo impiego con l’ascesa di Hitler. Suo marito non era iscritto al partito, ma non tollerava che lei portasse del cibo ai cancelli del campo di Dachau, dove nel frattempo il padre era stato deportato. Sopravvissuto al lager, il padre tornò a casa, ma non riusciva neanche lui a credere alle camere a gas. Raccontò anche di un’amica ebrea della madre che una sera
venne da noi, al buio, per dirci: «Vi prego, non venite più a cercarmi, e scusatemi se io non vengo da voi. Capite, vi metterei in pericolo…» Naturalmente abbiamo continuato a visitarla, finché non fu deportata a Theresienstadt. Non l’abbiamo più rivista, e per lei non abbiamo «fatto» niente.
Hety era appassionata e avida nel capire, infatti volle incontrare personalmente Albert Speer, l’architetto di Hitler che si dichiarò colpevole durante il Processo di Norimberga. Nel primo incontro a Spandau vide in lui un sincero ravvedimento, poi non confermato nel secondo incontro. Levi ne ebbe il sospetto, lei ne fu delusa.
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Immagine di copertina: da Pixabay