Mario Rizzi, artista italiano a Berlino “Questa città offre una delle scene artistiche più ricche e variegate di tutto il mondo”
Con le sue opere filmiche, girate tra Libano, Giordania, Tunisia, Palestina e Turchia, Rizzi è in grado di dare voce a chi è relegato ai margini della società
Filmmaker italiano, con base a Berlino, Mario Rizzi è un artista il cui sguardo si estende ben al di là della capitale tedesca e dei confini europei. Nel corso della sua carriera artistica Rizzi ha infatti viaggiato spesso, spostandosi tra Italia, Germania, Olanda, ma soprattutto in paesi mediorientali, come Turchia, Libano, Palestina. Con il suo approccio empatico e la capacità di accogliere ciò che, in un’ottica eurocentrica, viene considerato come “altro” o “diverso”, Rizzi è un artista in grado di dare voce ai grandi esclusi della società occidentale: le persone musulmane, le donne, le e i migranti. I suoi film, il cui focus è sempre sul singolo individuo, narrano le storie di persone che vivono vite ai margini, schiacciate da guerre, privazioni economiche o condizioni di oppressione sociale, e della forza con cui sono in grado di reagire a queste situazioni.
Nel corso della sua carriera le opere di Rizzi sono state esposte in istituzioni artistiche di rilievo, come il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Museo MAXXI di Roma e il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, a Prato. Ha partecipato, con i suoi film, a diversi festival cinematografici, come la Berlinale (nel 2008 e nel 2013) e l’Ankara International Film Festival (nel 2015 e nel 2016). A Berlino ha di recente esposto, alla Berlinische Galerie, “Bayt”, una trilogia filmica girata tra Giordania, Tunisia e Libano. Sulle tre opere uscirà presto un libro, pubblicato dalla casa editrice NERO. Noi di Berlino Magazine abbiamo avuto il piacere di intervistare Rizzi e di parlare con lui del suo rapporto con la città e dei suoi progetti artistici.
La Berlino di Rizzi, “un luogo allo stesso tempo assolutamente pubblico e assolutamente privato”
Mario Rizzi è nato e cresciuto a Barletta, in Puglia. Inizialmente ha studiato psicologia a Roma, e solo successivamente ha fatto il suo ingresso nel mondo dell’arte, studiando fotografia in Francia, all’Ecole Nationale Supérieure de La Photographie. La sua carriera ha preso avvio infatti prima come fotografo, poi come regista: “dalla fotografia sono passato prima ai video, poi alle installazioni multiscreen e infine al film. È stata un’evoluzione sia personale che artistica”. A Berlino Rizzi è arrivato nel 2001, invitato dalla Kunsthaus Bethanien per una residenza artistica: “sono arrivato a Berlino in un momento in cui volevo un po’ di tutto dalla vita. In quel periodo cercavo di vedere e assorbire tutto. Ho iniziato ad amare la città in maniera spassionata e ho sentito impellente il desiderio di conoscerla”.
Uno dei motivi che ha portato Rizzi ad amare Berlino è la capacità della città di conciliare due aspetti contrapposti, ossia “il fatto che qui puoi essere, allo stesso tempo, assolutamente pubblico e assolutamente privato. Ad esempio, quasi nessuno sa nemmeno dove abito e questo mi permette di mantenere la mia privacy. Allo stesso tempo questa città è un luogo assolutamente pubblico. Qui puoi incontrare chiunque e, se sei interessato all’arte, hai la possibilità di interfacciarti con tanti mondi artistici differenti. Contemporaneamente, se vuoi lavorare nel tuo studio tranquillo, senza che nessuno ti riconosca per strada qui puoi farlo”.
“In Europa, Berlino è ad oggi una delle città che offre una delle scene artistiche più ricche e variegate”
Il lavoro di Rizzi si concentra in particolar modo sulla tematica delle migrazioni e del Medio Oriente, tematica che trova terreno fertile nella città di Berlino. “Per un lavoro impegnato come il mio, o comunque legato alle migrazioni, Berlino è rimasta sempre il centro dell’arte contemporanea. Qui penso che ci sia grande interesse per la cultura araba in generale. Se pensiamo solo al fatto che la comunità turca è molto importante in Germania, l’attenzione deriva anche dal desiderio di non essere estranei a quello che accade nel mondo quotidiano”.
Una Berlino che, pur essendo cambiata parecchio dal 2001, anno in cui Rizzi è arrivato nella capitale tedesca, ad oggi, riesce ancora a dar voce a ciò che fuoriesce dalla norma: “Berlino aveva un mondo underground stupendo dal punto di vista culturale e aveva dei costi bassissimi rispetto a qualunque altra città europea. Queste esperienze underground, o quantomeno non propriamente mainstream, che un tempo erano estremamente visibili, sono tuttora presenti, ma in modo meno evidente”.
Un mondo underground che qui, come in tante altre città europee, è minacciato da un costante processo di gentrificazione: “questo è il motivo per cui abito a Wedding. È l’unica zona che, nonostante ci provino in ogni modo, non riescono a gentrificare, e questo mi fa piacere. Un quartiere che, molto più di quelli di Neukölln e Kreuzberg, ormai, è abitato e attraversato da comunità multiculturali: quella turca, quella libanese, quella siriana, ma anche quella coreana. Questo è quello che mi garantisce di avere sempre un ambiente stimolante e di non essere rinchiuso in un solo ambito culturale”.
“Il mio fine è quello di dare voce a chi altrimenti non ne avrebbe l’opportunità”
I lavori di Rizzi trattano tematiche sociali estremamente attuali, mantenendo però sempre un punto di vista oggettivo. In questo senso Rizzi ci tiene a tracciare una linea di distinzione tra arte e politica. “Prendo parte alle storie di chi è ultimo nella società, ma non ne prendo parte politicamente. Cerco di dare voce alla marginalità, ma non lo faccio mai da un punto di vista politico, se con questo si intende scegliere una fazione politica. Io parlo della situazione di una singola persona, non parlo mai del sociologico, del politico, dell’antropologico. Certo, le storie che racconto sono emblematiche, simboliche di qualcosa di più grande e le mie idee traspaiono dal mio lavoro, ma non sono queste il suo oggetto. Definirei il mio lavoro come impegnato sia socialmente che culturalmente. Il mio fine è quello di dare voce a chi altrimenti non ne avrebbe l’opportunità, ed è questo ciò che è più rilevante”.
E chi sta ai margini, nella società attuale, è il migrante, soprattutto se proveniente dal mondo islamico: “Durante un periodo trascorso a Sarajevo, negli anni ’90, sono venuto a contatto con la cultura islamica. Qui ho capito per la prima volta che il nuovo Altro, quello che era l’ebreo nella Seconda guerra mondiale, oggi è il musulmano. Non solo dal punto di vista religioso, ma anche sociale perché viene guardato con sospetto, con minore tolleranza e solidarietà e spesso emarginato”.
Per dare voce alle marginalità oppresse, Rizzi costruisce un rapporto empatico con i suoi soggetti, in un processo di avvicinamento che travalica le differenze culturali: “sono cosciente dei privilegi che mi derivano dall’essere bianco, cristiano e occidentale, e cerco di sfruttarli a vantaggio delle persone con cui lavoro. Per farlo metto in atto un processo di approssimazione dove io, da ‘outsider’, provo a diventare un ‘insider’. A questo scopo, non inizio mai a filmare o fotografare immediatamente, nel momento in cui arrivo nella location di un nuovo lavoro. Al contrario, passo diversi mesi in uno stesso posto, vivendo a stretto contatto con le persone che lo abitano”.
“Bayt”, che in lingua araba vuol dire ‘casa’, è qualcosa che non crolla mai. Sono le radici che hai dentro e che ti porti dietro ovunque tu sia”
Bayt è il nome della trilogia di film realizzata da Rizzi, attualmente in mostra alla Berlinische Galerie. I film, che narrano le storie di oppressione e resistenza di tre donne differenti, ruotano intorno a questa parola, “Bayt”, la cui traduzione letterale è “casa”, ma il cui significato si estende ben al di là di questo. Si tratta di un concetto sviluppato dallo scrittore Anthony Shadid nel suo romanzo La casa di pietra. “Un concetto che parla dell’idea di casa come qualcosa che non è solo la struttura in muratura ma è il luogo degli affetti, la famiglia nel senso esteso. Bayt è qualcosa che, per Shadid, non crolla mai. Sono le radici che hai dentro e che ti porti dietro ovunque tu sia, che tu sia in un campo profughi, o che tu ti sposti dall’Italia a Berlino”.
In sintesi, “quel qualcosa che ricrei in qualsiasi luogo con coloro che ti sono intorno e che non necessariamente deve essere il luogo in cui sei nato”. La trilogia narra infatti le storie di tre donne, provenienti da Siria, Tunisia e Libano, che riescono a ricreare una propria bayt, nonostante condizioni di vita estremamente difficili. La trilogia inizia con quella che è a prima vista l’assenza di bayt, ovvero la condizione dei rifugiati. Il primo film, Al Intithar (L’attesa), è infatti ambientato nel campo profughi di Zaatari, nel deserto giordano, uno dei più grandi campi che ospitano rifugiati siriani. “Il film è incentrato su Ekhlas Alhlwani, vedova di 29 anni che vive con i tre figli in una tenda nel campo profughi. Qui la sua vita scorre in attesa di qualcosa che non arriva. Alla ricerca di uno sbocco da una situazione di impermanenza che è quella del campo profughi. La bayt per Ekhlas è la famiglia che riesce a creare intorno a sè, pur vivendo in una tenda all’interno del campo. Questo senso dinamico del concetto di appartenenza, di radici culturali e familiari, è un tema molto importante nel mio lavoro e la storia di Ekhlas riflette le attese, le tensioni e la resilienza dei rifugiati, assumendo al contempo un valore metaforico soprattutto in relazione al significato che la casa, o l’assenza di questa, ha per loro”.
Il secondo film, Kauther, è incentrato sulla figura di Kauther Ayari, la prima attivista ad aver parlato pubblicamente a Tunisi contro il dittatore Ben Ali, all’inizio della Rivoluzione dei Gelsomini. Una donna la cui storia oggi è sconosciuta ai più. “Mi interessava capire come l’idea di bayt possa aver influito sulla nascita di quei movimenti sociali che, impropriamente, vengono chiamati primavere arabe e del nuovo spirito civico che li ha animati. Volevo dunque capire anche come queste nuove idee di partecipazione sociale e di democrazia possano nascere nella famiglia, nel nucleo familiare”. Come nel caso di Kauther, la cui militanza politica nasce anche come forma di reazione al dominio patriarcale subito nel corso della sua vita; “in tutti questi movimenti sono le donne quelle che sono in prima linea”. Qui il concetto di bayt si esprime nell’attivismo di Kauter, “un attivismo che ha dovuto abbandonare ma che è rimasto dentro di lei, come la sua vera casa”.
La trilogia si chiude con The Little Lantern, film che parla di Anni Høver Kanafani, una donna danese di 84 anni che nella sua vita ha creato asili e centri educativi, anche per bambini con disabilità, nei campi profughi palestinesi in Libano. Anni si è trasferita in Libano negli anni ’60, dove ha sposato il noto scrittore e attivista palestinese Ghassan Kanafani. Alla morte del marito, ucciso insieme alla nipote in un attentato, Anni ha deciso di rimanere in Libano e di dedicare la sua vita alla causa palestinese. “Anni ha creato la sua casa in Libano e qui ha dato un’educazione a bambini palestinesi di quarta generazione che non hanno mai visto la propria terra d’origine. È riuscita a dar loro un’identità palestinese, ha creato il loro bayt“.
Nel film, oltre al racconto della vita di Anni dopo la morte di Kanafani, viene mostrata anche una rappresentazione teatrale, realizzata dallo stesso Rizzi, in cui le attrici e gli attori sono i bambini degli asili fondati da Anni. Lo spettacolo è un riadattamento della favola scritta da Kanafani, La piccola lanterna, che narra metaforicamente dell’abbattimento dei muri e dell’instaurazione di una democrazia dal basso, non elitaria. Dei muri che però, nella realtà, rimangono in piedi: “il muro in Palestina c’è e quello, purtroppo non lo toglie nessuno, anzi continua a crescere”.
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Immagine di copertina: Courtesy Mario Rizzi & Italian Council