Una (personale) classifica dei 6 migliori album di David Bowie

L’8 gennaio del 1947 nasceva a Brixton – quartiere nel sud di Londra – David Bowie una degli artisti più influenti della storia della musica di tutti i tempi. Una personale classifica dei suoi migliori album

Astronauta, alieno androgino, aristocratico cocainomane, detective. David Bowie fu tutto questo e molto altro. La notizia della sua morte arrivò come una doccia gelata nella prima mattinata dell’11 gennaio 2016, pochi giorni dopo l’uscita di Blackstar. Col senno di poi l’album ha assunto i tratti di un oscuro epitaffio – uno splendido canto del cigno – suggello di una carriera decennale con opere che rimarranno scolpite per sempre dentro di noi e che occupano un posto di primo piano all’interno della storia della musica. Un percorso artistico che l’ha portato a non essere solamente una semplice rock (pop) star ma anche un attore, pittore e scrittore addirittura broker dato che è stato il primo musicista a quotarsi in borsa. Nel corso degli anni ha assunto innumerevoli identità, ha lanciato mode ed è diventato una vera e propria icona ma ha conservato, sempre, una coerenza stilistica che è difficilissimo trovare, oramai, negli artisti odierni. Ho cercato, da devoto fan, di raccogliere i suoi migliori album. È una classifica personale – e non in ordine di gradimento – che non si basa sul successo commerciale o su particolari aspetti stilistici ma è dettata soprattutto dalle emozioni che queste opere hanno suscitato e risvegliano ancora oggi nel sottoscritto.

6) The Next Day – 2013 e Blackstar – 2016

Dal mio personale punto di vista gli ultimi due album di Bowie, The Next Day e Blackstar sono da considerarsi come due facce della stessa medaglia nonostante un intervallo di 3 anni tra le loro uscite. Se The Next Day era il grande ritorno di Bowie – dopo 10 anni di completa assenza dalle scene – Blackstar rappresenta il suo definitivo addio. Ricordo ancora quando, nello stupore generale, uscì l’inedito che anticipava The Next Day, Where are we now? l’8 gennaio 2013. Ormai Bowie era scomparso quasi completamente dalle scene, ogni tanto faceva qualche breve apparizione pubblica o era paparazzato mentre passeggiava nella sua New York. Ormai nessuno tra i suoi fan si sarebbe aspettato nuovo materiale inedito. Riuscì, invece, a mantenere il più stretto riserbo durante le registrazioni dell’album per poi pubblicare online il video del primo singolo proprio il giorno del suo sessantaseiesimo compleanno, tra lo stupore generale e l’immensa gioia di tutti. Perché The Next Day non è solo “il ritorno dell’esile Duca Bianco” ma è anche un album notevole, di quelli che ormai non sei più abituato a sentire dalle vecchie glorie. Un’opera ispirata, dalla gestazione lunghissima, proprio perché Bowie non sarebbe potuto tornare con un album mediocre come era stato Reality l’ultimo prima del ritiro. Invece già dall’ascolto della struggente Where are we now? ci si trovava di fronte a un brano che non sfigurava di certo al cospetto delle produzioni più famose del musicista. La canzone è una malinconica carrellata indietro nel tempo, una passeggiata nelle strade dei ricordi della sua Berlino, da Potsdamerplatz fino al Kadewe, una città a cui era stato legato a doppio filo e in cui era letteralmente rinato. Uno sguardo al suo vissuto per poter comprendere il suo presente e buttarsi a capofitto nel ‘giorno dopo’.  Non a caso la copertina di The Next Day riprende quella di “Heroes”, album legato per sempre alla capitale tedesca.

Contraltare di The Next Day è Blackstar. Similmente al precedente, anche il nuovo album fu annunciato a sorpresa e pubblicato il giorno del suo sessantanovesimo compleanno l’8 gennaio del 2016. Quello che tutti non sapevano è che Bowie stava lottando, ormai da mesi, contro un cancro al fegato e che morì pochi giorni dopo il 10 gennaio. Ascoltando il disco alla luce della sua morte – soprattutto i singoli Lazarus e Blackstar – già si capiva il messaggio che voleva mandare ai fan e cioè quello di un uomo che sta morendo ma che vuole andarsene con un colpo di teatro sorprendendo tutti, proprio come aveva vissuto.  Ricordo benissimo, ancora oggi, quando appresi la notizia e fui assalito da sentimenti difficili da esprimere a parole. In molti mi fecero notare che si trattava solamente di un musicista e che, per quanto fossi stato un suo fan, la sua morte non avrebbe dovuto colpirmi così tanto. Ma non era così. Per molti di noi, a volte, la musica è una e vera propria ancora di salvezza che ci aiuta in momenti bui e rende la vita – a volte molto difficile da affrontare – più leggera. E per me la musica di David Bowie aveva sempre avuto quello specifico significato, una vera e propria cura per l’anima, una sensazione che molti altri, ne sono sicuro, hanno provato. Blackstar era allo stesso tempo il suo regalo per tutti noi ma anche la volontà di lasciare il suo testamento spirituale nella forma che gli riusciva meglio: la musica.

Da ascoltare assolutamente da The Next Day: Where Are We Now?; The Stars (Are Out Tonight); Valentine’s Day; You Feel So Lonely You Could Die

Da ascoltare assolutamente da Blackstar: Blackstar, Lazarus, Sue (Or In a Season of Crime)

5) ‘hours…’ – 1999

Ero un ragazzetto di 13 anni quando comprai ‘hours…’ – con i risparmi della paghetta settimanale – di fatto il primo album di Bowie che ascoltai. Ero sempre cresciuto, grazie a mio padre, circondato da ottima musica ma, stranamente, nella sua collezione non c’era nessun album del Duca Bianco. Ricordo che comprai il disco dopo aver visto in televisione il video di Thursday’s Child, incuriosito da quell’elegante signore con occhi diversi e affascinato dalla malinconica melodia e da un testo che riguardava a una vita vissuta ‘fuori luogo’. Inutile dire che fu amore al primo ascolto. Tempo dopo, capì che quello era un album che racchiudeva gran parte delle varie ‘reincarnazioni’ di Bowie espresse nel corso degli anni che andava da brani pop più intimisti come il già citato Thursday’s Child o Survive fino all’esplosione rock rabbiosa The Pretty Things Are Going to Hell passando per le oscure atmosfere di Brilliant Adventure che rievocano i brani strumentali degli album della Trilogia Berlinese. ‘hours’ è il sunto di una carriera mediato dalla maturità data dall’esperienza di una vita e di un percorso artistico vissuto al massimo.

Brani da ascoltare assolutamente: Thursday’s Child, Something in the Air, Survive, The Pretty Things Are Going to Hell

4) 1.Outside – 1995

A David Bowie è sempre piaciuto raccontare storie. E con ‘storie’ non intendo racconti che si concludono dopo una canzone, ma quelli che vengono definiti concept album e cioè dischi che narrano una vicenda attraverso le canzoni che li compongono. Ne sono un esempio la parabola dell’androgino alieno caduto sulla terra in The Rise and Fall of  Ziggy Stardust o le avventure di Halloween Jack nella distopica città del futuro di Hunger City in Diamond Dogs basato su 1984 di George Orwell. Anche 1.Outside è un concept album anzi, come definito dallo stesso Bowie, un “iperciclo non lineare di dramma gotico”. Un titolo criptico, così come tutto l’album. 1.Outside mi colpì per tutta una serie di motivi che ancora oggi lo fanno rientrare nella mia personale classifica dei miei dischi preferiti. Innanzitutto uno degli aspetti più affascinanti è la macabra storia raccontata del disco con il detective Nathan Adler che indaga sulla scomparsa della 14enne Baby Grace ed è sulle tracce di un serial-killer soprannominato Il Minotauro che smembra le sue vittime per creare delle opere d’arte. A livello musicale con 1.Outside Bowie era uscito da una certa impasse che era iniziata con Tonight e proseguita con un altro paio di album non proprio brillanti che risentivano ancora di un certo pop anni ’80 ma molto più naive rispetto a Let’s Dance. Conscio, come sempre, dei cambiamenti che stavano avvenendo nel panorama musicale mondiale Bowie pescò a piene mani da uno dei generi più in voga nel periodo portato al successo da band come i Nine Inch Nails: l’industrial. Molto spesso queste operazioni di ‘svecchiamento’ da parte di artisti più maturi per stare al passo con i tempi risultano abbastanza stucchevoli, inutili e anche fastidiose per i fan. Non è il caso di Bowie che, con le musiche di 1.Outside riuscì, come sempre, a trasferire il suo stile personale senza sembrare una vecchia rockstar che gioca a guadagnarsi i favori del pubblico più giovane. Testimone di questo aspetto è la miriade di riferimenti che si possono trovare nell’album. Dallo stile narrativo di William Burroughs – da cui Bowie riprende la tecnica del cut up per comporre i testi – fino alle performance del sanguinolento gruppo artistico degli Azionisti Viennesi. Il risultato è il disco della rinascita che lo fece uscire dal buco nero in cui era caduto alla fine degli anni ’80, un’opera che riesce a mischiare le influenze più disparate, dalla letteratura alla musica, dall’arte al cinema. Un album che, vi avviso già, non è di facile ascolto ma che, se ascoltato con attenzione, si rivelerà una delle migliore opere degli anni ’90 realizzate dal Duca Bianco. Un colpo di genio che, all’epoca, aveva ancora una volta stupito i suoi detrattori che già ne avevano decretato la morte artistica.

Da ascoltare assolutamente: The Hearts Filthy Lesson, Hallo Spaceboy, The Motel, Strangers When We Meet

3) Station to Station – 1976

Lo stesso David Bowie durante un’intervista ammise che neanche si ricordava le sessioni di registrazioni di Station to Station. Non è un mistero che in quel periodo passato a Los Angeles fosse bloccato in un vortice di cocaina con la testa piena di paranoie esoteriche che rischiarono di portarlo alla morte. Nonostante questo buco nero potesse ingoiarlo del tutto ponendo di fatto fine alla sua carriera, riuscì a comporre e a registrare un album come Station to Station. Il rumore della locomotiva che apre la lunga title track è l’inizio di un viaggio in cui Bowie è il capotreno che ci accompagna in un percorso che si snoda dal funky al krautrock, dalle disperate richieste di aiuto a Dio fino a un ermetico occultismo che mischia magia nera e cabala. Con Station to Station Bowie indossa l’ennesima maschera, quella del Duca Bianco, forse uno dei suoi personaggi più complicati e inaccessibili. Un aristocratrico cocainomane, longilineo, reincarnazione lisergica del Superuomo decantato dal filosofo tedesco Friedrich Nietszche – le cui opere tanto appassionavano Bowie – mediato dal pensiero dell’occultista britannico Alesteir Crowley. Il suono diventa più freddo, lontano dalle atmosfere ‘americane’ del precedente Young American e molto più vicine alle sonorità di band europee, soprattutto tedesche. Station to Station è un disco di cambiamento, della sua apertura verso altri mondi. Una profezia di quello che lo avrebbe aspettato negli anni a seguire: il trasferimento a Berlino, la disintossicazione e la realizzazione della famosissima Trilogia Berlinese. Che Bowie fosse già a conoscenza di tutto questo o che non se ne rendesse neanche conto a causa del cervello spappolato dalle droghe poco ce ne importa. Importa invece che sia riuscito a comporre un’opera come Station to Station.

Da ascoltare assolutamente: Station to Station, World on a Wing, Stay

2) “Heroes” – 1977

Non c’è da stupirsi del fatto che il brano “Heroes” sia, almeno su Spotify, il più riprodotto dell’intera discografia di David Bowie con quasi 311 milioni di ascolti. Il disco – naturale evoluzione del nuovo corso musicale iniziato con Station to Station – fu registrato interamente in una Berlino divisa, negli storici Hansa Studio, secondo atto della celebre Trilogia Berlinese e indissolubilmente legato per sempre alla città. Quando arrivai a Berlino per la prima volta nel 2018 ascoltavo ossessivamente questo disco mentre passeggiavo per la città proprio per cercare di capire cosa la capitale tedesca avesse trasmesso a Bowie e come l’artista avesse interiorizzato queste sensazioni per poi comporre uno dei suoi dischi più innovativi, almeno per l’epoca. La risposta la trovai molto presto perché “Heroes” è Berlino e Berlino è “Heroes”. Ovviamente bisogna considerare i cambiamenti della città, forse una delle capitali europee che più ha cambiato volto nel corso del XX secolo proprio come Bowie. “Heroes” è una lunga istantanea di una città sofferente, tagliata a metà da un Muro e quasi completamente distrutta ma che, paradossalmente, continuava ad attirare artisti da tutto il mondo diventando ciò che era stata Londra fino all’inizio degli anni ’70. A Berlino, però, eravamo molto lontani dai lustrini e dalle sfavillanti luci della Swingin London e infatti qui approdavano, il più delle volte, artisti che, in certo modo, stavano affrontando una profonda crisi personale e artistica. Il più delle volte – proprio come Bowie e Iggy Pop ma anche Nick Cave e gli U2 pochi anni dopo – Berlino giocò un ruolo fondamentale nel risollevare o dare una svolta alla loro carriera. Per Bowie “Heroes” fu la testimonianza di una rinascita artistica e umana, il definitivo colpo di reni per uscire dallo smarrimento in cui era scivolato durante gli anni trascorsi in America. Ancora oggi alcuni luoghi di Berlino rievocano le stesse atmosfere che avevano contraddistinto la città vissuta da Bowie. Questo è uno degli aspetti che più mi fanno amare quest’album. Molto spesso, infatti, alcuni capolavori del passato suonano oggi anacronistici, bloccati nel luogo e nel tempo in cui sono stati registrati. “Heroes” invece non si limita ad essere una semplice fotografia della città alla fine degli anni ’70 ma si è evoluto con essa e, ancora oggi, nonostante gli epocali cambiamenti, riesce a descriverla alla perfezione, basta ascoltare con attenzione.

Da ascoltare assolutamente: “Heroes”, Sense of Doubt, Blackout, Beauty and the Beast

 

1) The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars – 1972

Ziggy Stardust piombò sulla terra il 16 giugno del 1972 e nessuno, prima di allora, aveva visto un essere del genere. Ziggy Stardust è l’album della svolta che spianò definitivamente la strada del successo a Bowie e che rimane, ancora oggi, un punto di riferimento per generazioni di musicisti. Ma chi è Ziggy? In un’interessante intervista rilasciata allo scrittore William Burroughs nel 1973 – contenuta nel libro Rock and Roll virus – David Bowie spiega che, contrariamente all’opinione comune, Ziggy non è un alieno venuto da un altro pianeta ma è un ‘tramite’ tra creature provenienti dallo spazio e l’umanità intera. È un essere sessualmente ambiguo, che trascende i generi maschile/femminile è l’incarnazione corporea del Superuomo profetizzato da Nietzsche. È la totale libertà dionisiaca della mente e del corpo in un’epoca in cui la repressione era all’ordine del giorno. Il messia Ziggy veniva ad annunciare la venuta di esseri spaziali che avrebbero liberato i terrestri sia mentalmente che dal punto di vista fisico. Ed è così che fece sia dal punto di vista musicale che estetico. La cresta di capelli arancioni, gli atteggiamenti al limite dell’oscenità sul palco e la ‘ruvidezza’ di alcune canzoni influenzarono e anticiparono di un lustro le contestazioni dei gruppi punk della fine degli anni ’70; la teatralità e l’ambiguità sessuale suggestionarono l’attività di altri artisti che ancora oggi continuano a seguire gli insegnamenti di questo Superuomo venuto dallo spazio.

Da ascoltare assolutamente: Starman, Ziggy Stardust, Suffragette City, Rock’n’Roll Suicide

 

Immagine di copertina: David Bowie – Aladdin Sane ©stratopaul da Flickr CC2.0

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