La straordinaria vita di Alda Balestra, Miss Italia 1970, ora organizzatrice di mostre a Berlino

Una vita passata tra quattro Paesi e straordinarie esperienze: Alda Balestra ci ha aperto le porte della sua casa berlinese per un’eccezionale ed inedita intervista. Foto di Anna Agliardi

A Berlino abita Miss Italia 1970. Fosse per lei ora vivrebbe nella sua Trieste e non è detto che non accadrà fra qualche anno, ma per ora è qui, assieme ai suoi due figli di 25 e 23 anni. Il suo nome è Alda Balestra. È stata una delle più importanti modelle italiane degli ultimi 40 anni, eppure a Berlino molti la conoscono con il suo cognome da coniugata: von Stauffenberg, lo stesso dell’ufficiale che provò ad uccidere Hitler e che Tom Cruise ha reso celebre al grande pubblico con l’interpretazione di Operazione Valchiria e di cui il suo (ex) marito è il bisnipote. Le sovrapposizioni di nomi, lingue, luoghi in cui sentirsi a casa e professioni, sono una costante della vita di Alda, almeno di quel tratto che ha percorso fino al momento del nostro incontro nel suo appartamento di Charlottenburg dove mi riceve assieme alla fotografa Anna Agliardi. Alda vuole siano fatte senza trucco, “Sono fiera di ogni mio anno vissuto”. In questa bellissima casa ci vive dal 2000 ovvero da quando insieme al marito e ai due figli ha lasciato New York. «La scelta del trasferimento era stata meditata. L’anno prima eravamo venuti a Berlino per qualche settimana per testare la situazione. Era gennaio, affittammo un loft a Kreuzberg e nonostante il buio e soprattutto il freddo, ben peggiore di quello di questi ultimi anni, ci trovammo bene anche se dopo qualche giorno ci avevano già sfasciato l’auto, non so se per un tentativo di rapina o per semplice vandalismo. Mi sembrò facile fare amicizia. E poi era un po’ una sfida. Da tempo gli agenti di mio marito spingevano affinché si trasferisse fisso  nella capitale tedesca. E così dopo il periodo passato a Berlino, lui mi chiese: “Sei sicura di poterlo fare?”. Avevo già vissuto in tante parti del mondo: Trieste, Milano, Parigi e New York, non avrei permesso che il timore di dovere ricominciare altrove potesse condizionare il benessere della nostra famiglia. Risposi che se avessimo trovato un appartamento bello ed economico – all’epoca tutto costava niente – e i bambini fossero stati accettati alla JFK, l’unica scuola bilingue della città, peraltro gratuita, allora avrei accettato. E così è stato». Una volta arrivati però si ruppe l’equilibrio famigliare. «Io ero una madre che, parlando poco tedesco, doveva prendersi cura dei nostri due figli, dalla colazione alle visite del medico, lui invece iniziò a fare la vita dell’artista a Berlino andando a dormire poco prima di quando io mi dovevo alzare. Eppure dopo il divorzio ho deciso di restare. L’ho fatto per i miei figli: non volevo costringerli a un altro trasferimento, allontanandoli peraltro dal padre. Anche se loro, al di là del cognome e del fatto che tra di noi parliamo soprattutto l’inglese, lingua franca di tutta la famiglia, sono culturalmente soprattutto italiani».

Alda Balestra fotografata da Anna Agliardi per il progetto Noi, Berlino

E dire che lei stessa è nata e cresciuta in un posto di frontiera e con una nonna austriaca.

Sono nata due mesi prima che i bersaglieri entrassero a Trieste, un momento simbolo che sancì il passaggio a territorio italiano di quella che era stata fino a poco prima una città libera. Era l’agosto del 1954. Mio padre, capitano di lungo corso della marina, era spesso in viaggio, anche per sei mesi consecutivi, a volte. Non eravamo ricchi, anzi, avevamo giusto il minimo per cavarcela, ma ho avuto un’infanzia felice così come mio fratello, quattro anni più giovane di me. All’epoca la gente viveva la quotidianità in maniera più serena di oggi: giocavamo in strada, intorno era campagna, facevamo i chilometri per andare a scuola, ma sempre con gioia anche perché non avevamo termini di paragone, per noi quella era la normalità. D’estate si andava al mare, d’inverno in montagna a sciare. . In casa le figure di riferimento erano femminili. Mia madre era una casalinga, mia nonna invece, di famiglia austriaca come tante famiglie in città, era centralinista, un lavoro spesso dato alle persone bilingue. Durante gli anni del fascismo la sua famiglia era stata costretta a cambiare il cognome in qualcosa di più italiano e scelse Paoli. L’altra nonna, la madre di mia madre, viveva a Grado, provincia di Gorizia, dove, anni prima, durante una festa, si erano conosciuti i miei genitori. Mia madre ha sempre detto che un uomo, per essere un bravo amante, deve essere prima un bravo ballerino, immagino quindi che sia successo ballando… Certo è che la passione per il ballo mi è stata tramandata e in qualche modo ha a che fare con la prima svolta della mia vita, l’elezione a Miss Italia.

Alda Balestra bambina

Cosa successe?

Che il destino scelse per me. Sembra una frase fatta, ma andò proprio così. Avevo 15 anni e come tutti i ragazzini di quell’età, la domenica pomeriggio la si passava nelle balere, spesso nascondendolo ai genitori. Un pomeriggio di luglio, con le mie amiche, decidiamo di andare in una balera fuori mano. Vedo gente con dei numeri in mano. Chiediamo di cosa si tratta, ci dicono Miss Trieste. Non sappiamo cosa sia.  Un organizzatore mi si avvicina con un numero e prova ad appiccicarmelo alla maglietta. Io dico di no. Mi nascondo in bagno, ma le mie amiche mi vengono a prendere e mi portano sul podio. Fin da piccola studio danza classica quindi forse il mio portamento fa sembrare che sono più sicura delle altre, anche se non è così. Vinco. Il giorno dopo la mia foto appare sul giornale locale. Mia madre si arrabbia, ma se ci ripenso ora, credo che nei suoi occhi ci fosse anche lo sguardo di chi in fondo era orgogliosa della sua bambina. Mio padre era invece in viaggio in Sud Africa. Il 13 agosto c’è la selezione di Miss Friuli. Ho 15 anni, per vincere bisogna averne però 16. E succede proprio che vogliano far vincere me. Il colpo di fortuna? Compio 16 anni il giorno dopo. E così aspettano mezzanotte per annunciare il verdetto. Parto per Salsomaggiore per la finale nazionale. Ricordiamoci che era il 1970, un momento di rivolte giovanili e movimenti femministi. Che sia stato per il mio cappello corto, per il fatto che non mi truccassi o perché, davanti a tanti corpi bellissimi, io magrissima, rappresentavano un tipo di bellezza opposto a modelli come Sophia Loren o Gina Lollobrigida, all’epoca molto in voga, insomma, sarà perché in me forse videro una sorta di donna del futuro, vengo eletta Miss Italia. Quando mi annunciano vincitrice mi metto a piangere e dico a mia mamma “Dí a quella arrivata seconda che glielo regalo il premio!”. Non volevo lasciare Trieste, ero spaventata che quel premio avrebbe cambiato la mia vita

Sorpresa?

Per me già la vittoria di Miss Trieste era stata sorprendente. Ero molto perplessa da ciò che gli altri vedevano in me, anche perché avevo passato un periodo dalla prima adolescenza con un problema di peso. Ero troppo cicciona! A posteriori posso dire che è stata veramente la storia del brutto anatroccolo, anche se in realtà l’appetito non mi è mai mancato, neanche quando ho fatto la modella. Era stata solo un problema di fasi dello sviluppo: in pochi mesi, a 15 anni, crebbi di 15 centimetri senza prendere peso. Mi ricordo che il primo ragazzino che mi piacque disse ad una mia amica, che gli aveva confidato la cotta, “Dille prima che si andasse ad aggiustare le gambe”. E dire che poi le gambe sono state quelle che mi hanno permesso di avere la carriera che ho avuto.

Miss Italia ad ogni modo ha rappresentato una svolta per la tua vita…

Si e no. All’epoca Miss Italia non stava in tv, le cosiddette ospitate erano davanti a un negozio di piastrelle o delle merceria Farina e altre cose così. Ci sono delle foto di me in vetrina in costume da bagno e tutto questo pubblico anni ’60 che mi guarda come se fossi dentro ad una gabbia. Io tutta rossa ma dovevo farlo per contratto. E poi ci fu un fotoromanzo. È così che già a 16 anni ho iniziato ad essere finanziariamente indipendente, un grande privilegio iniziare così presto, ma tornata a Trieste il tutto non ebbe una vera e propria conseguenza. Tornai al liceo a studiare, avevo le amiche di sempre e giusto nei weekend facevo qualche sfilata o apparizione in posti della zona o del Veneto, ma la mia vita era tornata più o meno alla tranquillità di prima. Occupai anche diverse volte la scuola. Erano gli anni dei moti studenteschi, anni a loro modo straordinari per la libertà che si respirava. 

Chi vince Miss Italia però non dovrebbe partecipare a Miss Universo?

Sì, ma io e i miei genitori non volevamo. Quell’anno la cerimonia era a Miami, negli Stati Uniti e non me la sentivo di viaggiare così lontano, da sola. E così, quando le richieste da parte degli organizzatori di Miss Italia, che volevano mandare una loro rappresentante, si fecero insistenti, i miei dovettero chiedere l’intervento della protezione minori e far mettere per iscritto che siccome non avevo 18 anni non potevo partire, nonostante il contratto.

E gli uomini? Ti guardavano in modo diverso quando tornasti con il titolo di Miss Italia ?

Improvvisamente cominciarono a girare voci sul mio conto. Che ero andata a letto con quello e quell’altro, brutte voci. Mi fecero male, addirittura cominciai spesso a dire un nome diverso affinché nessuno capisse che ero Alda Balestra. Era la mia unica difesa. Avevo solo 16 anni ed ero vergine. Per fortuna avevo uno splendido gruppo di amiche, con loro a distanza di 40 anni ancora mi sento.

Giornale di Trieste 1970

Preso il diploma cosa fai?

Parto per gli Stati Uniti come viaggio premio. La sorella di mia madre si era sposata con un soldato statunitense ai tempi della guerra. La raggiunsi in Texas, a El Paso e Dallas, stetti lì quattro mesi. È stata un’ottima esperienza, anche un modo per praticare quell’inglese studiato a scuola, ma che una volta sul posto mi sembrò una lingua completamente diversa. Quando torno, durante una sfilata nella zona, conosco un agente di commercio che rappresenta una ditta di moda del Triveneto. Comincio un po’ a lavorare con lui, finché un giorno mi porta a Firenze dove all’epoca, a Palazzo Pitti, c’era la settimana della moda. Non c’era ancora Milano, non almeno ai livelli di ora. Conosco così la stilista della sua azienda, Giorgia Rapezzi. Lei mi vede mi chiede se voglio fare una pubblicità su Vogue. Ignara dell’importanza della testata, mi sembra una bella opportunità così accetto. Lei è contenta e mi dice: “Dai ti presento i miei amici”. La seguo all’interno di Palazzo Pitti e mi presenta uno stilista, Gianni Versace, che all’epoca non ha una sua marca, lavora per altri. E come lui il suo amico Enrico Coveri. Mi chiedono se mi va di sfilare per loro quello stesso giorno. Accetto. Tutto è molto spontaneo, tutto molto semplice. Qualche giorno dopo vado a Milano per il servizio su Vogue. Mi prende un’agenzia e così cerco di crearmi la mia carriera lì quasi come se Miss Italia non ci fosse mai stato. Già dopo qualche giorno sono in viaggio per la Svizzera e la Germania, Monaco e Amburgo, ma non Berlino, per booking fotografici.

E le sfilate?

Anche. È questa forse la scelta che più mi contraddistingue. All’epoca chi faceva la fotomodella non era indossatrice. E io, forse perché non sono dell’ambiente, faccio entrambe senza pensarci molto su. Peraltro sfilare mi diverte, mentre a volte sui set fotografici ti annoi a morte. Erano gli anni in cui, dopo i successi di Alberta Tiburzi , Benedetta Barzini e Isa Stoppi di italiane famose c’era solo la compianta Brunella Casella, poi diventata la direttrice di Elite Model Look Italia. Un po’ più tardi arrivò Monica Bellucci, che però ha già 10 anni meno di me.

Quando decidi di lasciare Milano?

È stata una scelta graduale, quasi obbligata visto che a poco a poco la maggior parte dei miei lavori si lega in qualche modo alla Francia. Nel ’78 prendo casa a Parigi, ma già due anni dopo comincio a fare la spola con New York dove di fatto la mia carriera diventa, da europea, internazionale a tutto tondo. Poi in realtà la casa a Parigi l’ho lasciata solo nel 1986, ma è dal 1980 che comincio a vivere negli Stati Uniti.  La mia agenzia mi aiuta a trovare un appartamento prima nella Upper East Side, poi a Downtown. New York all’epoca era il massimo a cui potesse aspirare una modella.

Come fai a ricordarti tutto così bene?

Sono una persona che tiene tutto appuntato sull’agenda. Le ho ancora tutte. Con date, orari, indirizzi, pensieri. Qui in caso magari vedi un po’ di confusione, ma sono sempre stata molto organizzata. E così, appuntando le cose, riesco anche a ricordarle molto bene. Sto poi raccogliendo tutti i contratti e le fatture emesse per chiedere la pensione. Insomma, mi prendi in un momento in cui sto già rivivendo, da un punto di vista fiscale, tutta la mia vita professionale.

Come è stata la tua vita a New York?

Sono stati gli anni più belli e intensi della mia vita. Anche se i lavori erano meno creativi che in Europa, tutto era più regolare, sia in termini di orari, dalle 9 alle 17, come un’impiegata, che nei giorni. Nei fine settimana scappavo al mare. È così che ho cominciato ad avere il tempo per cucinare per gli amici, una passione che mi è rimasta negli anni. Facevo la spesa da Balducci, un rivenditore di prodotti italiani di qualità da poco aperto nel Village, e poi otto amici a cena, una situazione non scontata: all’epoca in pochi cucinavano a casa in città. Poi certo, si usciva anche: Studio 54, Area, Palladium.. Quando si usciva si incontravano sempre persone interessanti….tutto era molto “mixed”:  Andy Warhol, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat mescolati con le modelle e gli attori del momento. La gente la incontravi anche casualmente negli ascensore. C’era voglia di vivere e inconrarsi, di condividere, di apprendere gli uni dagli altri. Era un ambiente pioniere in qualche modo della globalizzazione. Cambiò tutto con la diffusione dell’Aids. Da allora niente fu come prima. La città cominciò a perdere il suo allure. Si cominciò a passare più tempo in mezzo alla natura o al mare.

È il momento in cui arriva l’amore…

Sì, è in questo contesto che succede anche che mi innamori e mi sposi. Lui è tedesco. Si chiama Franz von Stauffenberg, ma il peso del suo nome e l’importanza di ciò che successe ai tempi del nazismo la scopro, davvero, solo quando poi ci trasferiamo a Berlino. Nascono i nostri due figli, uno nel ’95, uno nel ’97 entrambi negli Stati Uniti. La nostra vita è abbastanza regolare. Io sfilo di meno, comincio a lavorare come editor di magazine di sport e politica, uno anche fondato da uno dei figli di JFK e doppiando film e programmi televisivi. Faccio anche dei doppiaggi per film. Dedico due anni al lavoro di technical adviser per un documentario dedicato alla moda presentato poi al Sundance Festival, ma quando l’agenzia di mio marito gli spiega che tornare in Germania sarebbe un’ottima mossa ci convinciamo a provare, e così ecco la storia di quell’inverno del 1999 a Kreuzberg e del trasferimento nell’anno dopo.

Alda Balestra con l'abito di Valentino disegnato per il suo matrimonio

Alda Balestra con l’abito di Valentino disegnato per il suo matrimonio, 1990 © Bodo Vitus – Courtesy by Alda Balestra

Avevi già messo prima l’amore o la famiglia davanti alla tua carriera?

È strano, ma sono sempre stata accompagnata, ma proprio ora che forse non tengo così tanto alla libertà, sono relativamente sola. A Berlino effettivamente il primo anno lo passo solo per stabilizzare la nostra situazione familiare, burocrazia, scuole, e così via. Nel 2001 comincio ad occuparmi di pubbliche relazioni e promozioni di artisti oltre a scrivere articoli di moda e design per varie riviste, comprese le guide Louis Vuitton, insomma, un nuovo percorso in vita ancora oggi tra mostre organizzate e progetti d’arte sia legati all’Italia, ad esempio con la galleria Massimo De Carlo di Milano, che internazionali. La coppia però non funziona…

Alda e Damian von Stauffenberg su una rivista tedesca

Alda e Damian von Stauffenberg su una rivista tedesca

Colpa della città?

Penso che già il nostro matrimonio non funzionasse. Ero venuta sperando che cambiasse qualcosa. Ed invece mi trovai, paradossalmente, più sola. Parliamo di un’epoca in cui trovare un’informazione in inglese era impossibile. Un po’ di tedesco lo avevo studiato quando ero al liceo e poi grazie a mia nonna, ma non bastava per rapportarmi con la burocrazia. Addirittura gli amici da più tempo qui mi sconsigliavano di parlare in inglese visto che mi dicevano che i tedeschi odiavano gli statunitensi. “Se proprio non puoi parlare tedesco, parla italiano che è meglio!”. La gente aveva poi paura dello straniero. A volte se ti avvicinavi ad una signora per chiedere un’informazione quella si teneva la borsetta. Era tutto così difficile.

Berlino ti ha costretto a reinventarti…

Sì, anche se ciò che Berlino ha fatto più di ogni altra cosa è stato, paradossalmente, farmi riavvicinare alla mia italianità.

In che senso?

Io, che avrei volentieri vissuto tutta la vita a Miami in costume da bagno, dopo vent’anni di New York pensavo ormai di essere una statunitense. Ed invece, frequentando i genitori dei compagni di scuola dei miei figli iscritti ad una scuola tedesco-americana, mi rendo conto che ho poco o nulla a spartire con loro. Che la mia cultura era diversa e che Stati Uniti non significa New York. Non ero però neanche tedesca. Tornando indietro mi sarei trovata molto più a mio agio a iscrivere i miei figli ad una scuola italo-tedesca…

Alda Balestra con i figli a Berlino poco dopo il trasferimento

Alda Balestra con i figli a Berlino poco dopo il trasferimento

Concretamente come è avvenuto questo riavvicinamento alla cultura italiana?

Rifaccio una premessa: a Berlino, quei primi anni, erano stati davvero difficili. Dal punto di vista emotivo era difficile fare amicizia, anche con persone non tedesche. Tutto è cambiato nel 2007 quando conosco Sergio Cusani, il finanziere di Raul Gardini, il primo condannato da Mani Pulite, l’unico ad aver scontato completamente la sua pena. Assieme collaborammo ad una mostra collettiva dal titolo Behind the Iron Curtain in esposizione a Berlino per un anno. Lui era sempre stato un collezionista d’arte, dopo la caduta del Muro aveva cominciato a comprare opere di artisti dell’ex Unione Sovietica, una grande collezione di social realism. Sergio è una grande persona.  Aveva tantissimi contatti sia qui a Berlino che in Italia. Mi ha presentato all’Ambasciata Italiana e all’Istituto Italiano di Cultura, e così, intorno a me, si è creata una sorta di seconda famiglia. Sono molto riconoscente alle nostre istituzioni italiane qui in città, mi hanno un po’ salvato, diciamo. 

Ora su cosa sei impegnata?

Sto lavorando su un progetto sulle ricette italiane che sarà sia online che da stampare. Inoltre continuo con la consulenza per l’arte e gli scambi culturali tra Italia e Germania. Appena si riapriranno i musei nello spazio museale di arte contemporanea Spazzapan a Gradisca di isonzo, vicino Gorizia, allestiremo la mostra “Behind the appearances “, dietro le apparenze, con fotografie sulla body art degli anni ’70 realizzate dagli artisti Holger Truelzsch e Vera Lehndorff, conosciuta come Veruschka, la modella di Blow Up di Antonioni. Ci saranno immagini mai presentate in Italia. Sono scatti molto attuali dato il contesto di isolamento che stiamo vivendo e della situazione climatica. A Berlino poi collaboro con la galleria d’arte contemporanea Luisa Catucci e  continuo a scrivere per la guida su berlino della Louis Vuitton. una scusa per tenermi informata su tutto quello che succede in città appaga la mia sempre vivace curiosità.

Come mai nei tuoi progetti mantieni il tuo nome da coniugata?

Perché è il nome che portano i miei figli. E poi è sui miei documenti! Finché abiterò qui userò tutti e due. E dire che il mio ex marito a New York si faceva chiamare a volte Balestra!

E i tuoi figli come vivono questo cognome? 

È un’arma a doppio taglio, può essere sia positivo che negativo. Tanta gente si aspetta da loro magari delle cose che non corrispondono… Non hanno frequentato molto la famiglia von Stauffenberg che peraltro sta soprattutto nel sud della Germania. Vedono solo il padre, che vive qui a Berlino con la sua nuova moglie e un’altra figlia. Adesso però anche lui è spesso nel sud della Germania per ragioni di lavoro. 

Perché quando ti separasti non lasciasti la città?

Avrei voluto tornare in Italia, ma quando hai dei figli fai anche delle scelte… I ragazzi avevano già fatto il cambiamento Stati Uniti-Germania, avevano vissuto il divorzio e non parlavano bene l’italiano. Tornare a Trieste mi avrebbe fatto bene. Il mare, quanto mi mancava e mi manca ancora, è un toccasana eccezionale. Le mie giornate erano super impegnative, da sola, senza famiglia, senza dei veri amici… I ragazzi andavano a scuola con anche dei piccoli problemini di comportamento… Non me la sono sentita, non avevo il tempo per pianificare tutto questo, non ho avuto la forza! E poi mi sono detta che io la mia vita l’avevo già in parte vissuta, che avevo avuto tante esperienze e mi ero tolta già tante soddisfazioni, e che rimanendo qui in Germania avrei dato delle possibilità ai miei figli che in Italia forse non avrebbero avuto. 

E ora? Ormai i tuoi figli sono grandi…

Voglio stare ancora vicino a loro. Nonostante sia cresciuta in una zona di frontiera e la mia vita sia stata tra Paesi e continenti diversi, sono e rimango una mamma italiana.

Alda Balestra con la sua bicicletta fotografata da Anna Agliardi per il progetto Noi, Berlino

Alda Balestra oggi con la sua bicicletta fotografata da Anna Agliardi

Tutte le foto di Alda Balestra oggi sono © Anna Agliardi /Berlino Magazine

 

 

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