Io, italiana, vi racconto come è lavorare in un call center di Berlino
L’esperienza di un’italiana alle prese con il servizio clienti di un’azienda berlinese
di Z.F
La prima volta che ho sentito di parlare di call center ero ancora una bambina. Era estate, e mi trovavo in salotto con mia madre. Ricordo che faceva caldo ed ero smaniosa di uscire per andare a fare compere. Mia madre sembrava non prestare attenzione alla mia impazienza. Seduta sul divano, mi dava le spalle, intenta a parlare al telefono. Mi bastarono due o tre parole per capire che stava rispondendo a un questionario fatto da una dipendente di un call center. Potevo udire dall’altro capo del ricevitore quel tono di voce gentile e affettato tipico delle persone costrette a essere cordiali già dalle prime ore del mattino. “Ma riattacca!” ho urlato, sperando che mi udisse anche la rompiscatole che stava rubando del tempo prezioso al mio shopping. E infatti mi udii. Si scusò e ringraziò per i minuti che le erano stati dedicati. “Sei una maleducata!” ha esclamato mia madre, non contenta che l’avessi salvata da quel colloquio penoso. “Quella persona stava soltanto facendo il suo lavoro! Se capitasse a te?!”.
Oggi
Sono passati quasi quindici anni dall’episodio, e la regola secondo cui “chi di spada ferisce, di spada perisce” a quanto pare è vera. Infatti in un call center ci sono andata a lavorare io. Per la precisione a Berlino, città in cui mi ero trasferita per fare un tirocinio di comunicazione. Lo si chiami customer care o assistenza clienti, la sostanza delle cose non cambia. D’altronde la letteratura ce lo insegna: una rosa è sempre una rosa e, anche se la chiamassimo in un altro modo, serberebbe comunque lo stesso dolce profumo. Con la differenza che il customer care non ha nulla di dolce. Al contrario, ci vuole buon fegato e ottima salute psicofisica.
La prima settimana
La prima settimana è filata liscia come l’olio. Dovevo seguire un training inerente tutte le incombenze del customer care agent: come mandare un’email, quali template utilizzare, come rintracciare il cliente nel database. Inoltre, dovevo imparare a memoria la formula iniziale, quella con cui si inizia la conversazione telefonica, e cercare di essere il più empatica possibile con l’interlocutore. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non riuscivo a entrare appieno nella mentalità del cliente, non vedevo quelli che lui considerava problemi insormontabili, e soprattutto reputavo superficiali certe pretese. È quello che mi capita spesso entrando all’IKEA: perché spendere cinque euro per un sottocaffettiera, quando puoi benissimo versare il caffè direttamente nella tazzina? Ecco, per me non aveva senso comprare un paio di stivali al prezzo di duemila euro, indossarli per due anni e pretendere il rimborso per un graffietto di due centimetri sotto la suola. Graffietto creatosi per usura tra l’altro, non per un difetto di fabbrica.
Sedermi in postazione
Quando mi sono seduta in postazione per la prima volta avevo lo stomaco chiuso. Non facevo altro che alzarmi per chiedere aiuto al team leader: avevo rimosso tutto quello che avevo imparato durante la settimana iniziale. Vicino a me era seduta una ragazza sudamericana che si è dimostrata disponibile fin da subito. “Lavoro qui da sei mesi e continuo a fare errori!”. Una consolazione almeno. La cosa più difficile era dover rispondere alle email dei clienti tedeschi. Nonostante avessi alle spalle quasi dieci anni di studio, mi mancava del tutto il lessico tecnico. Quando ho iniziato con le telefonate, è stato ancora peggio: non solo mi mancava la terminologia, ma anche la spigliatezza. Avevo paura di fare errori e pretendevo troppo da me stessa: il verbo coniugato perfettamente in tempo e modo, e la preposizione giusta declinata al caso giusto. Impossibile se devi risolvere questioni immediate, e soprattutto se la lingua con cui stai lavorando non è la tua lingua madre. Ricordo che i primi tempi sobbalzavo allo squillare del telefono, poi ci ho fatto l’abitudine e mi limitavo ad una sbuffata o a un’occhiata eloquente alla mia vicina. Il trucco è semplice: non prenderla sul personale. Il cliente non è arrabbiato con te. Una volta terminata la telefonata, respira a fondo e scambia qualche battuta con i colleghi.
I clienti
Nei mesi che ho lavorato nel call center, ho imparato a distinguere le diverse tipologie di cliente: quello che ha letto minuziosamente la politica di reso e conosce alla perfezione come e quando avvalersi dei propri diritti, quello che al contrario è ignorante in materia ma si lamenta lo stesso, quello che si lamenta solo per il gusto di farlo, e magari gli hai anche offerto il rimborso. E infine, la signora che scoppia in lacrime al telefono perché il corriere è in ritardo con l’ordine e l’anziana che invia in allegato una foto di una maglietta qualsiasi, chiedendo: “Veste grande?”. Quando le rispondi che per aiutarla avresti bisogno di informazioni più dettagliate, come il codice del prodotto o l’url della pagina, lei si indigna: “Ma come? Dovrei saperlo io? Siete voi che lavorate nel settore! E comunque non ho un url! Ditemi come si fa ad averlo!”. Provate a spiegarle che il dipartimento di assistenza clienti non ha nulla a che vedere con lo stilista, e si indignerà ancora di più. Spiegatele che cosa sia un url, e sarete spacciati per i prossimi quaranta minuti di telefonata.
The end
Al termine del contratto di lavoro parlavo un tedesco invidiabile. Posso dire senza presunzione che le mie doti comuncative siano migliorate più in un call center che nelle aule della mia università. L’ultimo giorno ho lasciato l’ufficio non senza una punta di tristezza. Ho guardato i colleghi – aspiranti designer, artisti, ragazzi in grado di parlare ben cinque lingue straniere, madri di famiglia, ma anche gli eterni ossessionati dai soldi e dalla carriera – e ho pensato che sentivo per loro lo stesso affetto che un soldato prova per i suoi compagni di guerra.
Immagine di copertina: © State Farm CC BY-SA 2.0