«Perché io, freelancer italiana che potrebbe vivere ovunque, faccio crescere mio figlio a Berlino»

Prima ancora che a misura di bambino, Berlino è una città “a misura di genitori. Un luogo, cioè, in cui la convivenza degli adulti con i bambini è resa più semplice da una serie di accorgimenti a favore di entrambe le categorie. Tutto merito del welfare? Non solo. La vita quotidiana di un genitore a Berlino è resa più leggera anche da tre semplici idee, formulate da privati cittadini, che sarebbero replicabili ovunque. Persino nel nostro paese”. È questa l’idea di fondo dell’interessantissimo articolo di Ilaria Ravarino, Berlino e i genitori: tre idee da copiare (subito), apparso sul blog “Che libertà. Il coraggio di essere donne” e poi pubblicato anche da Huffington Post Italia. Abbiamo intervistato l’autrice, giornalista, blogger e tra le fondatrici del movimento Se non ora quando?, che scrive da Berlino di cultura, costume e tecnologia per testate come Il Messaggero, Leggo, Gioia. Ilaria, sposata con Matteo Alviti, a sua volta giornalista, è mamma di Noè, tre anni il prossimo novembre.

Mamma in Italia? Se si può scegliere no, no grazie. La decisione di far crescere Noè in Germania, spiega Ilaria, non è stata casuale, nè dipesa soltanto da contingenze lavorative. “Noè è nato nel novembre 2012. A gennaio eravamo una famiglia berlinese. Mio marito già lavorava come corrispondente da Berlino dal 2005, dunque il trasferimento è maturato per molteplici ragioni, ma sicuramente ha inciso moltissimo la prospettiva di crescere nostro figlio in un posto diverso dall’Italia, che funzionasse meglio per lui e per noi. Al momento mi terrorizza l’idea di tornare in Italia col bambino. Eppure lì ci sarebbero i nonni a dare una mano. Ma per adesso mi sento più al sicuro qui”.

Berlino, esperimento sociale felice. “A Berlino le cose, per una famiglia, funzionano molto bene. Naturalmente non si può generalizzare, la città è grande ed esistono anche zone dove non tutto è paradisiaco. Ma solo a Friedrichshain, il quartiere in cui noi viviamo, ci sono qualcosa come 90 Spielplätze. Nei quartieri a più alto tasso di natalità, come appunto Friedrichshain o Prenzlauer Berg, la vita dei genitori è facilitata da una serie di provvedimenti, non solo statali come il Kindergeld, ma anche provenienti dal basso, dalla società civile, ad esempio i tre che descrivevo sul blog. Kindercafè, aree bambini nei negozi, fasciatoi nei bagni per uomini, ma anche una ripartizione meno bloccata dei compiti genitoriali: la coppia ne guadagna in tempo e serenità, le donne riescono ad armonizzare meglio lavoro e maternità, gli uomini possono recuperare il loro rapporto con i bambini e fare veramente i papà, senza doversi sentire dei mammi se si occupano del figlio”.

Idee semplici che in Italia non vengono copiate.“È un problema assolutamente culturale, non di mezzi. Si tratta di iniziative che non avrebbero costi esorbitanti e per le quali non servirebbero autorizzazioni particolari. Magari replicare esattamente da noi l’esempio tedesco del Kindercafè non sarebbe proprio semplicissimo, così come non sarebbe necessario dotare le aree bambini italiane dei medesimi, fantastici scivoli e labirinti così comuni a Berlino. Ma basterebbero già un po’ di buona volontà, qualche quaderno e pennarello, per trasformare la città in un luogo a misura di bambino, anzi, prima ancora, a misura di genitore“.

Fasciatoi e patriarcato. “Questo termine, patriarcato, centra perfettamente il nodo della questione. Se uno comincia a fare caso a come il fasciatoio nei bagni degli uomini, ad esempio in un ristorante, costituisca la normalità a Berlino e l’eccezione in Italia, c’è veramente da uscire di testa: ma perché mai bisogna costringere i papà, come è successo più di una volta a mio marito, a intrufolarsi di soppiatto nel bagno delle donne per cambiare un pannolino, profondendosi in mille scuse? E, soprattutto, dove sta scritto che l’unica destinataria di questa operazione debba essere la donna? Si tratta di un piccolo esempio, ma è comunque la spia di qualcosa di più generale. Si sottintende, in tal modo, che la madre è l’unico genitore deputato alla cura del bambino, e questo è un concetto che noi italiani non riusciamo proprio a sradicare dalla nostra testa, indipendentemente dal ceto o dalle credenze religiose. Un concetto che, peraltro, produce dei veri e propri disastri da un punto di vista tanto pedagogico quanto sociale: non devo certo stare a ricordare il tasso di disoccupazione femminile nel nostro paese, che sale ancor più esponenzialmente se si restringe il focus al Meridione e, ciò che qui più ci interessa, alle donne che hanno avuto un bambino. Quando si dice ricostruire il paese dalle donne, non si tratta uno slogan femminista, ma di un dato di buon senso: attualmente metà paese è messo nella condizione di non poter lavorare, e ciò non è ammissibile. Ci si scontra con ostacoli culturali e strutturali insuperabili, e diventa davvero difficile poter conciliare maternità e lavoro”.

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Photo: Menschen © Sascha KohlmannCC BY SA 2.0

 

 

Cinemamma e nonni salvagente. “Qui a Berlino, invece, non è raro che l’inserimento all’asilo lo facciano i papà, o che siano loro a far giocare i bambini al parco. Sono contente le mamme, che hanno più tempo per il lavoro, sono contenti i papà, che passano più tempo con i loro figli e sono più contenti anche i nonni, che non sono costretti, come in Italia, a badare sempre ai bambini e a vivere in pratica una seconda genitorialità, oltreché a svolgere una funzione di welfare senza la quale da noi, probabilmente, scoppierebbe la guerra civile. Un ulteriore esempio del gap culturale? Molti cinema tedeschi organizzano proiezioni adatte a bambini in età da allattamento, con luci più soffuse e volume un po’ più basso. Anche in Italia esistono cose del genere, sia chiaro. La differenza è che a Berlino ne usufruiscono anche i papà, muniti di biberon, e pertanto sono chiamati Kinderkino. in Italia, invece, si parla emblematicamente di Cinemamma. Sono dettagli, magari piccoli, ma che sottintendono un universo simbolico in cui i ruoli di genere sono bloccati“.

A Prenzlauer Berg, zona borghese di Berlino, i genitori sembrano tutti giovani, belli e innamorati.  “Chiaramente la disponibilità economica aiuta, ma la controprova che si tratta prima di tutto di un diverso modello politico e culturale arriva dal fatto che a Berlino non ci sono soltanto le oasi di Friedrichshain o Prenzlauer Berg, dove il tasso di natalità è tra i più alti di tutta la Germania e le libere iniziative di appoggio alla famiglia fioriscono ovunque. A Berlino ci sono anche quartieri difficili, dove i singoli cittadini possono fare meno per la famiglia. Ed è qui che entrano in gioco il welfare e la buona organizzazione tedesca che, anche nei casi più complessi, riescono comunque a garantire a tutti i diritti fondamentali: la lista di attesa per un asilo non può superare i tre mesi e, se succede, si può denunciare il comune; la retta mensile di un asilo che offre cibo bio costa 30 euro; e poi c’è il Kindergeld, che, per il primo e il secondo figlio ammonta a 188 euro al mese, per il terzo a 194 euro, dal quarto in poi a 219 euro. L’asilo che Noè frequenta attualmente, sai perché ci ha scelto? Perché aveva ancora un posto libero nella quota internazionale. Cioè, quell’asilo sceglie per statuto di avere un certo numero di bambini di altre nazionalità, perché giustamente lo interpreta come un elemento di arricchimento culturale. Facciamo il confronto con Roma, dove trovare posto in un asilo pubblico è un’impresa disperata, la retta di una struttura privata è pressoché insostenibile per il normale cittadino e, se a scuola ci sono troppi bambini stranieri, parte subito la rivolta; risulterà subito chiaro perché a Berlino i genitori si baciano e sono innamorati, mentre da noi sono sull’orlo di una crisi di nervi”.

Nascita di un figlio significa morte sociale dei genitori? “Essere genitori comporta sicuramente delle rinunce, ma non deve diventare un sacrificio assoluto, totalizzante. Questo in Italia capita più facilmente perché il contesto non aiuta la coppia. Noi siamo entrambi giornalisti freelance e, per la struttura stessa della nostra professione, il tempo di lavoro esonda facilmente nel tempo di vita. Ma se nel weekend vogliamo andare in una libreria o in un ristorante, partecipare a un evento culturale o semplicemente fare due passi per le vie della città, non abbiamo problemi a portare Noè con noi. In questo modo trovare un buon equilibrio tra lavoro, genitorialità e tempo libero diventa possibile. Può sembrare una stupidaggine, ma anche l’esistenza di negozi con un area bambini in realtà facilita tanto le cose quando, ad esempio, si deve sbrigare una commissione. E, soprattutto, testimonia un diverso approccio da parte degli esercenti, una maggiore empatia nel pensare il loro locale in funzione di clienti che –  guarda un po’ – potrebbero anche avere dei bambini. Poi, ovvio, è anche una questione culturale: qui, mediamente, l’avventura della genitorialità è vissuta con maggiore leggerezza, il che non significa mancanza di consapevolezza; mentre da noi, spesso, è percepita come una pietra tombale sul resto della vita. La prima cosa che ti dicono, quando aspetti un bambino, è: bello, però ti cambierà totalmente la vita, lo sai? Cosa vera, chiaramente, ma in Italia lo si dice con un’accezione vagamente terroristica, come se il resto dell’esistenza venisse definitivamente sepolto. E non deve essere necessariamente così”.

La famiglia in Italia? Sacra solo a parole. “In Italia formalmente la famiglia è sacra ma poi, nei fatti, nessuno fa davvero qualcosa per andarle incontro. Piace a tutti, finché resta relegata tra le quattro mura domestiche, con i bambini a giocare e la madre a prendersene cura. E non parlo solo delle dichiarazioni dei politici, è la gran parte della società civile a vederla così. Per questo dovremmo essere noi per primi, dal basso, a compiere lo scatto culturale necessario a cambiare le cose nella quotidianità, senza ovviamente smettere di fare pressione sull’apparato politico affinché la famiglia salga davvero in cima all’agenda delle priorità. Ma se non cominciamo noi a farci carico del problema, credo sia velleitario sperare che intanto se ne occupi la nostra classe dirigente. Mi auguro invece che la circolazione di idee tra i paesi europei e la circolazione degli europei stessi favoriscano il confronto e l’assorbimento degli esempi positivi da parte della nostra società. Berlino è un sistema che funziona, replicabile teoricamente anche da noi. A me interessa ribadire che si può fare, e che la differenza sarebbe enorme“.

Photo: Child with Pretzel © Sascha Kohlmann – CC BY-SA 2.0

 

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