Nizza e quella nostra reticenza a condannare gli USA se bombardano gli innocenti siriani
Martedì un raid americano in Siria ha ucciso almeno 56 civili innocenti. Gli aerei Usa, decollati da una Turchia prostrata dal repulisti di Erdogan, hanno colpito la città di Manbij, tra Raqqa e Aleppo, massacrando «per errore» decine di persone e sterminando otto famiglie. L’obiettivo erano alcuni miliziani dell’Isis, ma il target finale sono state vittime inermi in fuga dai combattimenti che insanguinano la città. Tra di essi donne e bambini. Com’era ancora un bambino il 13enne palestinese torturato, decapitato e filmato in un video raccapricciante dai “ribelli moderati” anti-Assad di Nour al Din al Zinki, gruppo islamista siriano a lungo appoggiato dagli Stati Uniti con armi e soldi. I civili morti in Siria nelle ultime ore diventano 77, se si contano anche le 21 vittime del bombardamento russo-siriano ad Atareb, sempre in quel protettorato di Aleppo dove la vita umana vale quanto quella degli insetti.
Dalle nostre parti nessuno si è stracciato le vesti per questi episodi. I media italiani a stento ne hanno parlato, se si esclude qualche eccezione. Troppo impegnati a spremere l’ultima stilla di sgomento dall’orrore di Nizza o da quello di Würzburg, non di rado con servizi imbarazzanti. Della mattanza siriana parla però l’Isis, che su queste stragi indegne costruisce la sua delirante narrazione colma di odio. Tramite i suoi canali, come l’agenzia di stampa Amaq, specula sui crimini – reali – dell’Occidente e esorta i “fedeli” al martirio, alla morte eroica nelle nostre città. A trucidare altri innocenti, in un muro contro muro che non ha più nulla di umano. E che sta polarizzando l’Europa, il mondo, in inquietanti estremismi. Opposti, eppure analoghi, nel loro essere funzionali alle élite che li cavalcano.
Ma perché un bimbo siriano ucciso fa meno notizia di uno francese o americano? Perché le nostre bacheche Facebook non sono intasate dallo stesso cordoglio atterrito, dai Je suis ipocriti e dalle bandiere esorcizzanti che abbiamo visto dopo Charlie Hebdo, Bataclan, Bruxelles e Nizza? Perché non ci indigniamo allo stesso modo quando gli Stati Uniti bombardano un ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan, uccidendo dottori e bambini? Perché voltiamo la testa dall’altra parte quando l’Isis devasta il cuore di Baghdad e miete 250 vittime – musulmane, si badi bene – in quell’Iraq gettato nel caos da una guerra criminale e fondata su una menzogna?
Certamente giocano un ruolo la prossimità geografica e culturale con Parigi, Bruxelles o Würzburg, la condivisione di un immaginario e di uno stile di vita, l’impressione che, in quegli attentati, avremmo potuto tranquillamente esserci noi, o uno dei nostri cari. Le emozioni, indubbiamente, non si suscitano a comando, e provare lo stesso dolore per le sofferenze di ogni essere umano, dal familiare amato fino allo sconosciuto che vive all’altro capo del mondo, ci condurrebbe alla follia. Tutto vero. Eppure, determinare il valore e la dignità di una vita umana sulla base di etnia, religione, classe sociale, distanza geografica o culturale resta un’operazione piuttosto feroce, per popoli abituati da secoli ad ascriversi il ruolo di ambasciatori di civiltà, égalité, fraternité presso il resto del mondo. Forse, a questo punto, gli stati d’animo liquidi della nostra contemporaneità sono un metro di giudizio sopravvalutato, se ci lasciano indifferenti davanti a migliaia di migranti annegati a un passo dalle nostre coste e di innocenti bombardati a casa loro, per poi farci commuovere di fronte a miriadi di ceste di gattini su YouTube.
Se la nostra sympatheia – la nostra capacità profonda di “soffrire insieme”, “sentire insieme” – non sa spingersi al di là del nostro naso e del nostro modo di vita, forse, allora, dovremmo tornare a fare appello alla nostra ragione. Se, narcotizzati dal nostro benessere depresso, non sappiamo interessarci per senso di umanità ai destini di miliardi di persone che vivono quotidianamente una vita impossibile, dovremmo farlo almeno per mero calcolo egoistico. Per un motivo molto semplice: finché il mondo sarà pieno di ingiustizia e di morte seminate da esportatori di democrazia, terroristi istituzionali o istituzioni terroriste, resteremo sempre seduti su una polveriera d’odio. E la mondializzazione in cui siamo volenti o nolenti immersi non globalizza solo le merci, i flussi di persone o i capitali, ma l’odio stesso. Lo rende reticolare, diffuso, incontrollabile. Un bombardamento in Afghanistan può avere effetti nel sud della Germania. Decenni di alienazione e di quartieri-ghetto possono spingere un immigrato di seconda generazione in Europa a unirsi al jihad in Siria, o armarne la mano a Parigi. Non c’è prevenzione, politica securitaria o misura repressiva che tenga, di fronte a un terrore divenuto molecolare.
L’unico vero antidoto, purtroppo a lungo termine, è disinnescare quell’odio, eliminare il brodo di coltura di quei conflitti. Nelle nostre metropoli come in Medio Oriente. Non si tratta più di essere – o sembrare – buoni. Si tratta della nostra sopravvivenza, e di quella di milioni di musulmani che – va sempre ricordato – sono le prime vittime dell’Isis. L’Islam ha sei secoli in meno del Cristianesimo, e non sarà certamente una religione progressista (ne conoscete una che lo sia?). Ma se studiosi come Olivier Roy ripetono a gran voce che siamo di fronte non a «una una radicalizzazione dell’islam, ma un’islamizzazione del radicalismo», e se i sociologi, nel tracciare il profilo degli attentatori, parlano sempre più spesso di personalità nichiliste, poco religiose, narcisiste e alienate, diventa difficile continuare a sostenere, se non per ignoranza o malafede, la tesi semplicistica dello scontro di religione e di civiltà.
Se non vogliamo morire di terrore, non abbiamo insomma altra soluzione che cominciare a costruire un mondo più giusto. E per farlo, è innanzitutto necessario che ci preoccupiamo – se proprio non ci riesce di addolorarci – anche dei civili morti in Siria, oltre che delle povere vittime della Promenade des Anglais a Nizza. E che cominciamo a riconoscere e condannare il terrore e la violenza criminale ovunque si manifestino, nei loro volti molteplici. È un esercizio critico che non ci renderà filo-terroristi; ci permetterà soltanto di leggere meglio le contorte dinamiche della nostra triste epoca. Nei bombardamenti in Siria o in Afghanistan; nelle carceri, fabbriche di criminalità; nelle guerre pretestuose in Iraq; nella morte sociale delle banlieue francesi; negli hotspot greci, trasformati in prigioni che fanno esclamare ai migranti: «È questa l’Europa? Allora meglio morire a casa, sotto le bombe»; in tutte queste fucine d’odio l’Occidente evoca, moderno stregone, potenze mostruose che poi, tragicamente, non è più in grado di controllare. Forse è arrivato il momento di togliergli di mano la bacchetta magica.
Foto di copertina © YouTube – Screenshot