Loro “migranti”, noi “expat”. La distinzione sa soltanto di ipocrisia. O razzismo
Lo scorso weekend a Berlino in occasione dell’ ID Festival si è discusso di flussi migratori. Il tema è attuale, la Germania è una delle mete più ambite da chi parte. La presenza di migranti è una delle questioni più urgenti per la politica tedesca. Berlino, ad esempio, perderebbe completamente la propria identità multiculturale. Gli stranieri che vivono in Germania senza averne la cittadinanza sono al momento di cinquecentomila.
Al giorno d’oggi tutto ha sempre bisogno di una definizione, di una delimitazione precisa che faccia capire chi, ma sopratutto cosa siamo. Ebbene, noi italiani in Germania e nel mondo, siamo espatriati (expat) o migranti? Ma soprattutto: perché nel lessico quotidiano e dei media la parola “immigrato” o “migrante” ha finito per riferirsi solo a chi proviene da zone povere o di guerra, mentre per chi parte dall’Europa (o comunque da Paesi percepiti come “occidentali”) è entrato in uso l’eufemistico expat?
Expat vs migrante. La parola expat deriva dal latino expatriatus, composto da ex (da, fuori) e patria. Secondo questa definizione, gli espatriati sono tutti coloro che lasciano il Paese d’origine per vivere, temporaneamente o per sempre, in un altro. Sarebbe invece un immigrato chiunque intenda stabilirsi definitivamente nel paese in cui si trasferisce, acquisendo una nuova nazionalità. La distinzione tra “expat” e “immigrato” non è, però, così netta. È prima di tutto l’impatto delle due parole a essere differente. “Migrante” deriva da “migrare”, termine che viene spesso utilizzato anche per le specie animali, soprattutto gli uccelli. Expat, sarà per l’elegante veste inglese del termine o per il riferimento a un orizzonte sociale e non naturale (la patria), evoca competenze professionali e vita agiata. Fa pensare a una persona che, da un paese ricco e occidentale, va a cercare un’occupazione altrove. Definire qualcuno “migrante” sembra invece spesso implicare che la persona in questione sia povera, che non abbia niente da perdere, che per raggiungere la sua destinazione abbia viaggiato su imbarcazioni precarie con valigie di cartone. L’expat è di solito il benvenuto. L’immigrato molto spesso no. Ma, a parte il fatto che da Paesi devastati dalla guerra civile (ad esempio la Siria) emigrano persone con alti livelli di istruzione e appartenenti a classi sociali agiate, gli appartenenti alle due (presunte) categorie non cercano di superare le stesse difficoltà? Imparare una nuova lingua, ambientarsi in un Paese diverso da quello in cui si è cresciuti, trovare un lavoro. Adottare due termini diversi, uno per le persone provenienti da Paesi industrializzati e una per le persone provenienti da Paesi poveri, non dovrebbe essere un campanello d’allarme, una denuncia di quanto sia inopportuno il nostro modo di parlare di immigrazione in Occidente? Perché non usare i due aggettivi come sinonimi?
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Paura dell’altro (o solo ipocrisia?). Noi italiani in Germania probabilmente ci sentiamo expat: abbiamo scelto di trasferirci a Berlino per cercare un impiego che ci rendesse soddisfatti. Ma definiremmo un siriano scappato dall’orrore allo stesso modo? Secondo uno studio condotto dall’Ipsos, in Europa c’è una terribile disinformazione riguardo ai numeri reali dei flussi migratori: molti credono che il numero di stranieri che vivono nel proprio Paese sia superiore a quello reale. Una delle maggiori preoccupazioni riguardo all’immigrazione è il rischio terrorismo ma, nei Paesi occidentali, quasi nessuno conosce le reali dimensioni delle popolazioni musulmane. I tedeschi credono che i musulmani che vivono in Germania siano 3,2 volte superiori a quelli che ci sono in realtà, e la situazione non è migliore in Italia, in cui si è convinti che la popolazione musulmana sia addirittura cinque volte superiore a quella realmente presente. Queste statistiche sono estremamente interessanti, soprattutto tenendo conto che tanti italiani vivono in Germania e che, in generale, la mobilità interna ai Paesi europei è molto alta. Invece di vedere l’altro come un nemico, dovremmo ricordarci di quando l’altro siamo noi.
Il dibattito. L’emergenza umanitaria senza precedenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ci ha portato a riflettere sulla semantica delle parole che usiamo. Un editoriale sul The Guardian ha fatto discutere, affermando che «nel lessico della migrazione umana ci sono ancora parole gerarchiche, residui di altre epoche in cui l’uomo bianco aveva la supremazia sugli altri. Una di queste è la parola expat». Effettivamente la parola “migrante” e ancor di più la parola “immigrato”, originariamente dal significato neutro, hanno assunto una connotazione tendenzialmente negativa. Immigrato è un ruolo, un individuo “spersonalizzato” e senza storia su cui è facile versare odio e xenofobia. Osservando le definizioni, i significati dei termini expat e “migrante” sono pressoché gli stessi. Ma nella pratica, ormai, non c’è quasi nessuna sovrapposizione. Eppure basterebbe guardare al nostro passato (e al nostro presente , si pensi solo a Londra e Berlino) per realizzare un dato molto semplice: siamo tutti migranti, da qualunque terra si parta.
Foto di copertina © Unsplash CC BY SA 2.0.