Le 6 fasi dell’immancabile, prima, drammatica visita dei genitori al figlio emigrato all’estero
Le prime volte sono sempre qualcosa di epico o disastroso. Tutte le prime volte. Il primo giorno di scuola vi siete innamorati della bambina accanto a voi senza saperne il nome, la prima volta che avete fumato una sigaretta lo avete fatto proprio mentre vi passava davanti un pullman pieno di parenti, la prima volta che avete dato un bacio avete capito cosa vuol dire sentire qualcuno davvero vicino, la prima volta che avete fatto sesso probabilmente vi siete chiesti cosa stesse combinando. Tra le infinite prime volte che vi possono capitare sicuramente la visita dei genitori quando vi trovate all’estero è una delle più esilaranti e al contempo stressanti, almeno per me lo è stato.
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Quando partite per trasferirvi all’estero, tutti ma proprio tutti vi dicono “ti veniamo a trovare” anche il barbiere o il postino di turno, è una cosa che viene naturale dire ma a cui nessuno da troppo peso. Se a dirlo sono i tuoi genitori sai che prima o poi succederà davvero e un po’ te lo auguri anche. A me è successo la scorsa settimana, a circa otto mesi di distanza dal mio arrivo a Berlino, ma sicuramente – a parte la città – la situazione è analoga a quella di tanti altri “figli emigrati”.
Fase 1: Trovare volo e alloggio
Se avete una casa in grado di ospitarli, buon per voi, non è prettamente una questione di metratura, più che altro di convivenza pacifica. Siete sicuri che ospitandoli non avrete l’istinto di lanciarvi dalla finestra dopo mezza giornata? Io non ne ero così sicuro per cui ho optato per l’opzione Volo+Hotel. Un famoso motore di ricerca per questo tipo di operazioni mi ha reso le cose ovviamente più semplici, la continua richiesta di informazioni in tempo reale da parte della mia genitrice no. Quando ho prenotato mi ha chiesto più dettagli lei tramite sms, Whatsapp, Skype e telepatia che lo stesso portale. Dettagli che riguardavano un ampio ventaglio di argomenti, dal meteo all’alimentazione, passando per le specifiche del volo aereo a cui neanche gli ingegneri della Boeing avrebbero saputo rispondere.
Fase 2: La preparazione
Dal momento della prenotazione alla partenza avevamo un margine di circa venti giorni. Più o meno gli stessi che saranno serviti per organizzare lo sbarco in Normandia, l’allunaggio e costruire la prima atomica. Per mia madre non erano assolutamente sufficienti. Le domande ridondanti di quei giorni sono state le seguenti, con relative risposte da parte mia:
Devo portarti dei vestiti? Si, grazie! qui giro nudo.
Mando Papà a fare la spesa, quanti kg di latticini, affettati e olio ti servono? Mamma vivo a Berlino non su Marte
Imbarchiamo due bagagli così ti porto “un po’” di cose? Mamma il tuo “un po’” di solito corrisponde ad uno dei container che vengono lanciati dall’Onu
Sicuro che non vuoi che ti portiamo la frutta buona? Si dei limoni, sai non vorrei prendermi lo scorbuto come un marinaio del 1800.
Fase 3: La partenza
Arriva il fatidico giorno, il meteo berlinese dice nell’ordine sole, pioggia, sole e poi l’icona di un dito medio, un classico. L’arrivo è previsto per le 16.30 io finisco di lavorare alle 16.00. Ricevo aggiornamenti da mia madre su Whatsapp “mi sto mettendo le scarpe” “papà ha preso le chiavi di casa” cose di questo tipo. Mia sorella mi iscrive a non so quale sito per cui ogni 5 minuti mi arriva una mail con lo stato del volo, ricevo più mail e messaggi io quel giorno che una ventenne con le tette in fuori su Instagram. Il volo prevede uno scalo a Fiumicino. Immancabile arriva il messaggio di mia sorella “l’aereo ha fatto ritardo, non so se ce la fanno a prendere l’altro”. Inveisco contro svariate divinità. Nell’aggiornamento successivo scopro che ce l’hanno fatta, per il rotto della cuffia, continuo a ricevere mail sul volo. Sono le 16, mi lancio letteralmente fuori dall’ufficio, U6 da Stadtmitte,navetta da Kurz-Schumacher. Arrivo alle 16.45, nel terminal incontro Barbara la mia ragazza. Mi guarda e dice “sono arrivati, ma non i bagagli”. Tutti i santi del calendario cristiano vengono nominati in adeguata sequenza.
Volo in ritardo, bagaglio rimasto a Roma. Ci rechiamo all’ufficio preposto, spiego la situazione alla signorina del desk, per fortuna gentilissima, nel contempo aiuto un signore italiano a spiegarsi e a capire. Anche lui ha smarrito il bagaglio, a Marzo. Penso alle burratine, penso all’olio, penso alla stracciatella ed al prosciutto di Parma, nella mia testa un trombettiere dell’esercito suona il silenzio, quattro salve di fucile danno l’addio alle mie scorte. L’operatrice del desk mi rassicura che il giorno dopo le valigie mi saranno recapitate a casa, l’avevano detto anche sei mesi fa al signore accanto a me.
Fase : La città
Berlino ci regala un tempo autunnale, sette gradi e pioggia, i miei da espertissimi viaggiatori hanno quasi tutta la loro roba nei bagagli dispersi, prendiamo un taxi. Il tragitto da Tegel a Prenzlauer Berg non offre tantissimi punti di osservazione della città, la pioggia non aiuta. Mia madre si guarda intorno ed esordisce con “Ma qui le case non hanno i tetti…” e si interrompe. Immagino volesse dire spioventi ma non lo dice, la mia risposta è “No mamma, non ce li hanno, sono aperte, come anfiteatri, col caldo che fa”. Arriviamo in hotel, con il mio miglior sorriso chiedo di effettuare il check in, il receptionist mi dice che non hanno prenotazioni a mio nome. Guardiamo meglio, strizziamo gli occhi ma nulla. Cerchiamo tramite il numero di prenotazione del famoso portale, scopriamo che il pernotto parte dal giorno dopo. Un errore del sito in questione, capita. Scatta la nomination dei santi del calendario ortodosso avendo terminato quelli cattolici. Per fortuna hanno una camera libera, dobbiamo pagarla e poi chiedere il rimborso. Sono le 18.00 di giovedì, sarà un lunghissimo week end.
Fase 5: Turisti per caso
Il programma è di quelli classici, il giro turistico per eccellenza. Si parte da Potsdamer Platz si passa per Reichstag e Porta di Brandeburgo, Unter den Linden fino al duomo, giro in battello ed Alexander Platz. Passiamo dall’ambasciata USA, è l’11 settembre ed hanno la bandiera a mezz’asta, mio padre scatta foto, la guardia alla porta non ne sembra felice. La giornata è fredda, ma il muffin di Starbucks ci da le energie necessarie ad affrontarla. Mia madre pone domande a cui rispondo con dei mugugni, mi chiede se ho chiamato l’aeroporto. Le dico che l’ho fatto ma il numero è sempre occupato. Me lo chiede ad intervalli regolari di circa quattro minuti, mi dice che forse dovremmo andarci noi in aeroporto. Penso seriamente di lanciarmi solo la prossima Trabi che passa.
Mi chiamano dall’aeroporto alle 15, bagaglio trovato, te lo portiamo a casa in serata. Vorrei piangere, ma lo farò solo se la stracciatella sarà ancora mangiabile. Mentre passeggiamo si svolgono lezioni intensive di tedesco “Danke, Tschuss, Bitte” mia madre non ne azzecca una “Dankescem, Chees, Bitter” andrà comunque bene, ne abbiamo sentite di peggiori.
Fase 6 : Il cibo
Un po’ tutti gli italiani sono dei fanatici in fatto di cucina, fondamentalisti della dieta mediterranea, al sud il fondamentalismo è radicato oltre ogni immaginazione. Se l’Isis minacciasse la parmigiana, il polpo crudo o i panzerotti, gli faremmo un culo così. A Berlino è tempo che i miei assaggino cucine diverse. La prima sera li portiamo al “The Wok Show” ad abbuffarci di ravioli cinesi, all’inizio sono scettici, soprattutto per la questione bacchette, dopo il primo raviolo spinaci e maiale diventano entusiasti. Sono lanciatissimi, colazione da starbucks, ma solo roba solida, niente beveroni. Pranzo con un bel burrito, tempo di digestione quattro mesi circa. Hamburger e patatine dolci, mia madre ha voglia di junk food, il suo stomaco non è d’accordo, lansoprazolo e gaviscon scorrono a fiumi. La sera di sabato tentiamo il colpo grosso “Sushi”, mio padre è curioso, mia madre vorrebbe evitare ma non può, è in trappola. E’ la mia vendetta per tutte le volte che mi ha propinato roba che non mi piaceva quando ero piccolo. In questi quattro giorni hanno apprezzato la variazione di routine culinaria, basta non confrontare tutto con la nostra tradizione, il segreto è quello.
Molte di queste cose sono in qualche modo capitate a tutti quelli che vivono all’estero ed hanno la fortuna o sfortuna di avere i propri genitori in visita. Alla fine fa sempre piacere mostrare il posto in cui vivi e sentirsene orgogliosi, probabilmente lo dovete anche a loro se siete dove siete. Quando vi salutate e vi dicono, non vediamo l’ora di tornare, un brivido vi corre lungo la schiena, sorridete e dite “Facciamo che torno io a casa eh?”.
Photo: © Jack Wallsten CC By SA 2.0
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