La storia e il video delle tragiche proteste di Berlino Est nel 1953, 8 anni prima del Muro

Lo sviluppo storico delle proteste operaie a Berlino Est nel giugno 1953 e della conseguente repressione sovietica. Cause e conseguenze

L’argomento oggetto dell’articolo in questione riguarda le tragiche proteste del 1953 a Berlino. La Guerra Fredda, come sappiamo, assunse in Germania una particolare rilevanza politica; qui fu il teatro dove  si consumarono i principali dissidi tra le due superpotenze.

La cornice storica

La Germania, sconfitta e costretta alla resa, alla fine della seconda guerra mondiale fu integralmente occupata dalle potenze vincitrici e perciò spartita tra esse. Come noto però, il fronte alleato, seppur formidabilmente coeso dal 1940 al ’45, non era affatto omogeneo dal punto di vista geopolitico ed ideologico. Da una parte vi erano le potenze liberali e capitalistiche, la GB e gli USA, dall’altro una potenza dichiaratamente comunista, l’URSS. Dopo la guerra queste differenze si acuirono a tal punto da deflagrare definitivamente nello scoppio della Guerra Fredda.

Dal momento che questi due fronti non riuscivano a trovare un accordo circa lo status del paese tedesco, si procedette a formalizzare una soluzione che era stata abbozzata sin dalla conferenza di Potsdam: ossia la divisione tra una Germania Ovest, sotto il controllo occidentale, e una Germania Est, sotto l’influenza sovietica. Questa divisione geopolitica rispecchiava le profonde differenze ideologiche tra le due superpotenze.

Questi due stati erano entità politiche solo formalmente sovrane; nei fatti erano entità a sovranità limitata. Pertanto non deve sorprendere come ciascuna superpotenza abbia impresso al territorio tedesco sotto la propria influenza il proprio modello economico e politico. Ai fini del nostro racconto rileva concentrarsi solo sulla Germania Est.

La politica della DDR: il regime della SED

Prima di entrare nel merito della politica economica della DDR è fondamentale inquadrare la politica tedesco-orientale nell’immediato dopoguerra.

Alle prime elezioni “libere” svoltesi in DDR emerse come forza predominante il Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (SED), frutto della fusione tra la SPD e il KPD (cioè il partito comunista tedesco).

È ovvio che, essendo la Germania Est sotto il controllo dell’Urss, superpotenza che faceva del comunismo la sua ideologia portante, forte era la pressione affinché la componente comunista si imponesse sulle altre. E così fu, dato che la SED si strutturò come partito sul modello sovietico; a un figura da leader, che assunse Walter Ubricht, si affiancarono un Politbüro, un Comitato Centrale e un Segretariato. All’apparente pluralismo dei centri decisionali faceva da contraltare il principio del centralismo democratico, principio leninista ispirato all’esigenza di combinare dialogo interno al partito e democraticità da un lato e unità decisionale dall’altro. Ma la reale ratio del centralismo democratico era quella di vincolare i membri del partito alle linee politiche imposte dal leader e dalla sua cerchia.

Il governo a guida SED di Ubricht nel 1952, ricevuta l’autorizzazione da parte delle autorità sovietiche, decise di avviare la fase della costruzione del socialismo. Il processo di costruzione di una società socialista doveva per forza di cose passare per una ristrutturazione dell’economia. È bene ricordare infatti che l’economia tedesca era estremamente in crisi, devastata dalle conseguenze della seconda guerra mondiale; non deve sorprendere che proprio sulla ricostruzione dell’economia emersero le principali differenze tra la Germania Ovest e la DDR.

La politica economica della DDR nei primi anni Cinquanta

Due erano le leve attraverso cui implementare questa politica di “costruzione del socialismo” sul piano economico: 1) la collettivizzazione dell’agricoltura; 2)innalzamento della produzione industriale. Per quanto riguarda il primo punto, le autorità tedesco-orientali si limitarono a ripetere uno schema già adoperato in Unione Sovietica. L’obiettivo era convincere gli agricoltori ad aderire alle cooperative agricole e dunque alla collettivizzazione della produzione agricola sotto il nome dello Stato. La collettivizzazione era dapprima volontaria ma ben presto divenne coercitiva; mentre le cooperative agricole venivano sovvenzionate dallo Stato, gli agricoltori che non avevano aderito venivano vessati da continui aumenti delle quote di produzione da consegnare. Altri agricoltori vennero addirittura imprigionati in quanto non riuscivano a stare dietro alle consegne delle quote e ai loro terreni dati in gestione alle cooperative. Queste misure in campo agricolo generarono un diffuso malcontento e spinsero nell’inverno del ’53 molti ex-coltivatori a fuggire verso l’ovest.

A livello industriale invece la politica di costruzione del socialismo si sostanziò nel varo dei noti piani quinquennali, e dunque nell’introduzione di un sistema economico controllato dallo Stato; in poche parole, l’economia pianificata. Nel febbraio ’53 il governo, al fine di aumentare la produttività, inoltrò alle aziende la richiesta di aumentare le quote di produzione in capo ai lavoratori. Tuttavia in quanto le quote avevano un impatto anche sui salari, l’aumento delle quote si traduceva in una diminuzione dei salari. E ciò generò naturalmente la forte opposizione dei lavoratori dell’industria e delle loro famiglie, penalizzate da queste misure.

Anche qui l’effetto prodotto fu quello di una massiccia emigrazione verso ovest; nel periodo tra luglio 1952 e l’aprile ’53 si registrarono circa 300mila emigranti, nonostante già in quella fase già ci fossero barriere fisiche al confine tra i due paesi. Vi era solo un’eccezione: Berlino, dove barriere non c’erano (ancora) e l’emigrazione era nei fatti facilitata.

Le proteste del giugno 1953

Ricostruito il contesto storico, è il momento di concentrarsi sull’evento oggetto dell’articolo. Come detto, le due leve di politica economica con cui “edificare” una società socialista avevano generato un forte malcontento e nell’inverno ’53 avevano innescato una pesante crisi economica. Questa crisi si era risolta nell’aumento dei flussi migratori verso l’ovest, la cui prosperità risultava estremamente attraente per i cittadini orientali. Basti pensare che nella primavera di quell’anno si stima che ogni mese 30mila persone lasciarono la Germania Est.

Nel giugno ’53 i vertici della SED, pressati da Mosca, avevano riconosciuto il fallimento della loro politica ed inaugurato un Neue Kurs, un nuovo corso. Ma il dietrofront era giunto troppo tardi: il malcontento accumulato in tutti questi mesi di misure vessatorie, ipocrite, che in nome di una presunta uguaglianza in realtà andavano a riversarsi solo sui lavoratori, era troppo per non esplodere in tutta la sua forza.

Il 16 giugno un manipolo di operai edili, impegnati nella costruzione dell’ospedale di Friedrichshain, scesero in sciopero per ottenere la revoca dell’aumento del 10% delle quote di produzione e dei conseguenti tagli salariali. Vistisi rifiutate le proprie rivendicazioni, gli edili dichiararono lo sciopero generale per il giorno seguente. Nel frattempo al corteo si unirono in maniera spontanea sia gli operai degli altri cantieri lungo la Stalinallee sia molti giovani, fino ad arrivare a costituire una manifestazione stimabile in 20mila persone.

Il giorno seguente lo sciopero da Berlino si estese all’intera Germania Est, arrivando a toccare 700 città e piccole località. Ma l’epicentro rimaneva comunque Berlino. I manifestanti, riunitisi a Strausberger Platz, si diressero verso Leipziger Straβe, dove vi era la sede del governo della DDR. A quel punto la manifestazione aveva perso il suo carattere eminentemente sindacale per trasformarsi in una protesta più compiutamente politica: i manifestanti avanzarono rivendicazioni di stampo politico, come le dimissioni del governo, libere elezioni ma soprattutto la riunificazione della Germania. 

La repressione sovietica

Il fatto che la manifestazione avesse acquisito un carattere così sfacciatamente politico non poteva non provocare l’immediata reazione dell’Urss. All’interno di un conflitto, come la Guerra Fredda, a bassa intensità sul piano militare ma ad alta intensità sul piano ideologico e simbolico, una contestazione così diffusa di un governo dichiaratamente amico era del tutto inaccettabile per il governo sovietico.

A maggior ragione se pensiamo che lo sciopero generale aveva perso il tratto pacifico del giorno precedente ed era diventata una manifestazione violenta. Dopo aver ingaggiato scontri con la Volkspolizei, l’esercito della DDR, i manifestanti presero d’assalto diversi edifici pubblici. Lo “scalpo” più importante fu senza dubbio l’assalto alla Haus der Minesterien, cioè la sede del governo, che venne occupata e poi vandalizzata. Inoltre alcuni manifestanti fecero a pezzi e rimossero la bandiera rossa che sventolava sulla Porta di Brandeburgo, per poi sostituirla con il tricolore tedesco.

La misura era colma per il governo della DDR, che si rivolse a Mosca per chiedere aiuto. Nella tarda mattinata del 17 giugno i primi carrarmati sovietici avevano già fatto il loro ingresso in città e, giunti a Potsdamer Platz, iniziarono a fare fuoco sulla folla disarmata, provocando morti e feriti. A quel punto le forze militari sovietiche si adoperarono per disperdere i manifestanti, sgomberare gli edifici occupati e riportare l’ordine a Berlino Est. Ma a che prezzo? A prezzo di una dura repressione, che nei giorni successivi allo sciopero portò all’arresto di circa 10mila manifestanti.

La repressione con i carri: non un episodio isolato

Il bilancio dei disordini di quei giorni fu per anni assai difficile da stabilire, per via della mancanza di interesse da parte dei vertici della SED a fare luce sulla vicenda. In seguito alla visione di nuovi documenti di archivio, si è potuto stabilire con pressoché totale certezza che il numero delle vittime ammonta a 55.

Senza entrare troppo nel merito degli scontri, della violenza e dei morti, può risultare più interessante osservare questo episodio all’interno di una cornice contestuale più ampia. Difatti la repressione delle proteste a Berlino Est non fu l’unico caso di repressione di moti popolari in uno dei paesi del blocco di Varsavia da parte delle autorità sovietiche. Potremmo dire che esso rappresentò piuttosto un triste episodio che inaugurò una tendenza generale.

Solo tre anni dopo (’56) una simile dinamica fu ripetuta a Budapest, dove si rese necessario l’intervento dei carri armati sovietici per avere la meglio su un’insurrezione popolare. A guidarla fu Imre Nagy, che stava mettendo in discussione la credibilità del potere sovietico in quel Paese. La repressione della rivolta ungherese è forse la più celebre dimostrazione della natura autoritaria ed antidemocratica dei regimi comunisti della seconda metà del Novecento. E difatti ebbe un’eco maggiore e spinse molti militanti comunisti dei partiti occidentali a prendere le distanze dall’autoritarismo sovietico. Tra questi ad esempio Italo Calvino che maturò il suo allontanamento dal PCI proprio in quell’occasione.

Nel 1968, stagione incredibilmente tumultuosa all’interno delle libere società occidentali, i sovietici si distinsero per un’ulteriore prova di furia autoritaria. Infatti in risposta alle rivendicazioni di maggiori libertà sul piano politico e di politiche liberalizzazione su quello economico da parte della società cecoslovacca, il leader del PCUS Leonid Breznev non seppe fare altro che rispondere con bieca violenza. Alla fine di agosto di quell’anno i carri armati sovietici faranno ingresso a Praga per spazzare via i manifestanti. La Primavera di Praga rappresentò un colpo decisivo alla credibilità del comunismo come sistema di governo in grado di venire incontro alle esigenze della popolazione.

Conclusione

La repressione delle proteste operaie a Berlino est sedò i bollenti spiriti dei cittadini tedesco-orientali, che non si ribellarono più apertamente al loro governo fino al 1989, quando gli scricchiolii del blocco sovietico stavano portando alla fine della Guerra Fredda. La fine della Guerra Fredda si rese evidente in quell’anno con il crollo del Muro.

Il governo della SED si adoperò per rimuovere ad ogni costo dalla memoria collettiva dei tedeschi il ricordo di quei due giorni di proteste nel giugno ’53. Bisognava evitare in ogni modo che si ripetesse un episodio di simile opposizione popolare, “dal basso”, a un governo comunista in un paese del blocco di Varsavia. In ogni modo, anche attraverso un sistema di controllo capillare della popolazione, che veniva costantemente spiata anche all’interno di casa propria. Per prevenire anche la minima forma di dissenso la nomenklatura non seppe fare altro che seminare un clima di terrore e mettere sotto controllo anche le idee dei suoi cittadini. In questo processo fu fondamentale il ruolo della Stasi.

Anche ad Ovest il ricordo di quelle rivolte, cavalcato solo per calcolo propagandistico nelle fasi immediatamente successive, finì presto nel dimenticatoio. Solo recentemente le istituzioni tedesche hanno recuperato il ricordo di quelle giornate, sottolineandone l’importanza a livello nazionale ed europeo. Sono molti i comuni tedeschi che negli ultimi giorni hanno deciso di rinominare strade con i nomi delle persone coinvolte. Molti musei invece hanno deciso di dedicare mostre ed esposizioni speciali all’argomento.

Pertanto possiamo concludere che le proteste operaie del 16-17 giugno 1953 abbiano acquisito maggiore rilevanza se guardate nell’ottica del movimento progressivo della storia, come apripista di una tendenza destinata, tristemente, a ripetersi, piuttosto che valutate in sé.

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