«Io, reporter contro gli orrori siriani, vivo a Berlino sotto minaccia di morte dell’Isis»
A un primo sguardo sembra un berlinese qualsiasi, la barba medio-lunga, il cappellino da baseball e gli shorts gli danno un’aria quasi da hipster e in fondo fino a cinque anni fa era un giovane come tanti. Oggi Abdalaziz Alhamza, 25enne fondatore di Raqqa is Being Slaughtered Silently, RBSS (in italiano: Il massacro silenzioso di Raqqa), è uno dei più famosi giornalisti siriani, e il suo lavoro di testimonianza uno dei più pericolosi al mondo. Da due anni si è trasferito a Berlino, ma le minacce dello Stato Islamico non accennano a diminuire: «L’Isis ha una taglia sulla mia testa, ma se la mia vita è il prezzo da pagare per combattere l’ideologia estremista allora lo pago volentieri». Lo intervistiamo in un caffè nel centro di Berlino durante una tiepida giornata di settembre.
Reporter contro la dittatura siriana. «La mia battaglia iniziò nel 2011 con le proteste contro il regime di Bashar al-Assad. Ai tempi ero un ragazzino di 19 anni, studiavo biologia e fino ad allora la politica non mi aveva mai interessato. Fu quando il governo imprigionò e torturò un gruppo di bambini a Daraa che capii quanto fosse seria la situazione. Fino ad allora avevamo sempre ingenuamente pensato di essere liberi, ma realizzammo che quella libertà era solo un’illusione e che non si poteva più lottare per delle riforme, ma ci dovevamo disfare dell’intero regime. Quando le proteste iniziarono a Raqqa, la mia città, ci fu un silenzio assoluto da parte dei media. Sia la TV locale che i giornali si rifiutarono di dare voce alle proteste e si limitarono a ripetere che tutto andava bene. Così con un paio di amici decidemmo di testimoniare in prima persona, usando i social network per riportare quello che stava succedendo. Fui arrestato tre volte, interrogato e torturato, volevano sapere di più sulle proteste e usavano le torture per scoraggiarci dal continuare. Ma più mi torturavano, più mi rendevo conto dell’importanza del mio lavoro. Per due anni fummo sottoposti a continui bombardamenti da parte del governo, e riportarli per me divenne un dovere».
L’ascesa dello Stato Islamico. «I primi membri dell’Isis arrivarono in città in due macchine, erano una decina di persone in tutto, vestivano di nero e sventolavano delle bandiere con il nome del gruppo. Nessuno ci fece troppo caso fino a quando non iniziarono a commettere i primi crimini. Ci furono le prime esecuzioni in pubblico e le prime crocifissioni in piazza alle quali ancora una volta rispondemmo con proteste. A quei tempi non c’erano abbastanza membri dell’Isis all’interno della città per riuscire a fermare le proteste, per cui si limitavano a fotografare i partecipanti per poi rapirli e ucciderli nel silenzio della notte. Nel 2013, dopo aver descritto le violenze del governo Assad, iniziammo a riportare anche i crimini commessi dello Stato Islamico e i primi scontri tra le forze dell’Isis e quelle dell’Esercito Siriano Libero raccontandoli nel nostro blog. L’Isis mi conosceva come attivista, mi avevano già avvicinato diverse volte cercando di persuadermi a unirmi a loro, ma ogni volta declinavo spiegando che volevo concludere i miei studi e tentare una carriera all’estero. Quando presero il potere nella città e vennero a cercarmi a casa però sapevo che questa volta sarebbe stato diverso. Un mio amico era appena stato trovato in una foresta con due pallottole ficcate in testa. Sapevo che questa volta non volevano semplicemente parlare e decisi di scappare. Presi la carta d’identità di un amico e mi rifugiai in Turchia».
L’inizio della contro-propaganda. «Il totale silenzio su quello che stava succedendo nella nostra città da parte dei media ci spinse a fare qualcosa di più di un semplice blog. Fu in Turchia che decidemmo di creare una piattaforma in grado di raggiungere un pubblico più ampio e di organizzare una campagna di sensibilizzazione e resistenza sia all’interno che all’esterno del Paese. Ideammo RBSS: ci organizzammo con un gruppo di amici ancora a Raqqa, loro ci inviavano notizie, video e foto sugli avvenimenti e noi li pubblicavamo sul nostro sito. Iniziammo una campagna di graffiti e poster all’interno della città indirizzata sia contro il governo che contro lo Stato Islamico e creammo un nostro giornale su carta stampata. Il giornale si chiama Dabiq, come il giornale dell’Isis, la copertina è uguale alla loro in modo da mimetizzarsi in città ma, mentre il contenuto del vero Dabiq serve da propaganda per lo Stato Islamico, il contenuto della nostra rivista vuole fungere da contro-propaganda. Lo scopo è quello di attrarre il maggior numero di persone possibile e di informarli sulla vita quotidiana sotto l’Isis. All’interno del giornale abbiamo una parte riservata agli adolescenti tra i 10 e i 15 anni, che rappresentano la fascia d’età su cui ISIS sta avendo più successo. Questi ragazzini vivono in una città devastata dalla guerra, non hanno nulla, e soprattutto non hanno una via d’uscita. Così l’Isis, con i suoi regali e le sue promesse, può sembrare un’alternativa allettante».
La guerra al giornalismo. «Poche settimane dopo la creazione di RBSS, lo Stato Islamico ci dichiarò guerra ufficialmente. Durante un messa del venerdì, il giorno di preghiera più importante nella cultura musulmana, l’imam della moschea di Raqqa annunciò che chiunque fosse stato sorpreso a lavorare per RBSS sarebbe stato perseguitato. A seguito di quest’annuncio una centinaia di civili furono incarcerati e torturati per aver cliccato ‘mi piace’ sulla pagina Facebook del nostro sito o per averci seguito su altri social network. A poco tempo di distanza, nel maggio del 2014, Al-Moutaz Bellah Ibrahim, uno dei membri del nostro gruppo fu catturato e ucciso in una piazza pubblica. Capimmo che il gioco stava iniziando a diventare rischioso e dovevamo prendere contromisure per evitare di perdere altri membri. Nessuno di noi era un giornalista professionista, non avevamo ne esperienza né preparazione adeguata per approntare una trasmissione dati sicura. Ci rivolgemmo a delle organizzazioni non governative e iniziammo a chiedere aiuto. Alcune di queste organizzazioni iniziarono a offrirci training in cibersicurezza e corsi di scrittura in modo da poter perfezionare i nostri reportage. L’uccisione di Al-Moutaz fu solamente la prima di una lunga serie di ritorsioni contro di noi. Dopo un paio di mesi ricevemmo un video ufficiale: il padre di uno dei fondatori di RBSS, suo fratello e tre dei suoi amici erano stati sequestrati, il prezzo del riscatto erano tre nomi dei nostri membri. Il nostro amico si rifiutò di pagare. Seguirono due video con cinque drammatiche uccisioni. Se l’assassinio dei nostri amici e familiari non ci poteva fermare, decisero di tentare in un altro modo. Piazzarono delle telecamere in ogni angolo della città, restrinsero i punti d’accesso wifi a tre internet point, tutti chiaramente sotto costante vigilanza, aumentarono i punti di controllo e proibirono l’uso di telecamere e fotocamere all’interno della città. Ancora una volta riuscimmo a superare gli ostacoli e continuare la nostra missione. Raqqa è la nostra città, i nostri sanno come muoversi all’interno e di non essere soli. Sebbene sia diventata ormai la capitale dello Stato Islamico, ci sono ancora più di un milione di civili intrappolati all’interno di Raqqa; la maggior parte di loro condanna l’ideologia estremista ma non ha modo né di protestare né di fuggire».
Il futuro di RBSS e della Siria. «A due anni dalla nascita di RBSS abbiamo perso ben quattro membri, e altre sei persone tra familiari e amici sono stati uccisi a causa nostra. Siamo scappati dalla Turchia dopo che quattro autobombe erano state trovate a soli cento metri dal nostro ufficio. Ma anche qui a Berlino, seppure lontani dal conflitto, non siamo in salvo. Le ramificazioni dello Stato Islamico sono lunghe e l’ideologia estremista ha un grande potere anche qui. Per questo da un paio d’anni abbiamo deciso di tradurre i nostri articoli anche in altre lingue in modo che possano informare non solo i siriani ma anche tutti coloro che stanno meditando di unirsi allo Stato Islamico attratti dalla loro propaganda. È solo questione di tempo prima che l’Isis a Raqqa venga sconfitta. Quello che sarà più difficile e quello su cui puntiamo davvero è distruggere l’ideologia estremista per evitare che ciò che sta succedendo adesso in Siria si ripeta ancora».
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