Innamorarsi a Berlino (7)

Continua Dieci, un racconto che sto scrivendo queste settimane e che è ambientato a Berlino. Per leggere il primo capitolo CLICCATE QUI. per il secondo capitolo invece CLICCATE QUI, per il terzo invece CLICCATE QUI, per il quarto CLICCATE QUI, per il quinto CLICCATE QUI, per il sesto CLICCATE QUI.

Presentarono il biglietto d’entrata, presero il corridoio, girarono a sinistra e e si ritrovarono davanti al celebre altare. Fosse stato un altro momento lui avrebbe già aperto la guida del Touring Club che teneva nello zainetto e avrebbe cominciato a leggere le quattro pagine di descrizione storico-artistica del monumento. Non lo fece. Non voleva staccarsi da quella mano che teneva stretta tra le sue dita. Non aveva il coraggio di riguardarla negli occhi, troppo alta la tensione, ma sentiva il suo respiro accanto al suo. Da qualche secondo poi le loro spalle si avvicinavano e si allontanavano come onde sulla spiaggia, lui a destra, lei a sinistra, due rette intersecanti che puntavano lo stesso punto in avanti prima di frenarsi a vicenda e costringersi a camminare parallelamente per un passo o due prima di riallontanarsi di nuovo mentre sul viso di entrambi si allargava un sorriso non casuale, ma vittima di un gioco di corpi e direzioni, di complicità nascoste, o meglio, chiare solo a loro…

Li notò un ragazzo giapponese intento a fare una foto al monunento. “Sono ubriachi?” pensò mentre ne osservava lo strano zig zag disegnato dal loro percorso aspettando che le loro figure uscissero dalla sua inquadratura. “Sono due zoppi?” chiese un bambino alla madre, incapace di staccare da loro gli occhi di dosso. “Non guardarli che li metti a disagio” gli rispose la mamma senza neanche alzare gli occhi mentre guardava il mancato invio di un sms ricordandosi che alla biglietteria le avevano detto che nel museo non c’era campo. “Sono due stupidi” pensò la responsabile seduta all’angolo della sala attenta a che i due non si avvicinassero troppo. “Sono due innamorati” disse un’anziana signora a suo marito ed entrambi si strinsero ancora più forte le mani.

E lui, era davvero innamorato? Troppo presto per dirlo, ma questo se lo disse solo a posteriori, a sera, quando il bacio era stato dato, le mani allacciate, gli sguardi presi e ricambiati e l’eccitazione, quella del momento, non quella del ricordo, ormai passata. Era uno di quei ragazzi che quando dà un primo bacio spera che sia per l’ultimo primo bacio di tutta la sua vita, uno di quelli pronti a contarne i numeri successivi finché non diventino un semplice per sempre da cui non si possa più tornare indietro, ma bastò un attimo di distrazione, come se dietro ogni momento di felicità si dovesse sempre nascondere un senso di colpa latente, per riportargli alla mente Erica. Sicuramente stava lavorando in quel momento, così presa a tracciare linee o a ricevere spiegazioni dal suo superiore. O forse chissà, ad aspettare un suo messaggio di “non vedo l’ora di vederti stasera” preparando una prima serata “berlinese” che potesse metterlo a proprio agio e, chissà, darsi quel primo bacio mancato la sera prima. Lui glielo avrebbe dato? Si allontanò da Laura per andare a leggere uno dei pannelli descrittivi dell’opera. Alla terza riga si rese conto che non aveva capito nulla e così ricominciò daccapo, ma il risultato fu lo stesso. Le parole si fermavano sulla sua pupilla e tornavano indietro. Troppo intenso il battito del suo cuore per accettare nuove informazioni. Prima di potersene rendere conto era di nuovo accanto a Laura. Non si dissero nulla, ma in qualche modo lui capì che lei aveva capito. O forse no. Passarono sotto la porta di Ishtar e proseguirono lungo la strada processionale del Museo. Si dissero qualcosa sulla bellezza di quella Babilonia attorno a loro, ma furono più parole di rito che vero sbalordimento. Complici entrambi di un tacito accordo che avrebbe fatto passare in secondo piano tutto ciò che non significasse “lui e lei”, si affrettarono a finire il museo con quella stessa determinazione di quelle coppie che sono in ritardo alla prima di uno spettacolo d’opera per il quale si sono vestite e profumate, ma hanno parcheggiato lontano e mancano solo cinque minuti, ma nonostante tutto non si mettono a correre, vuoi per i tacchi di lei, vuoi per il papillon di lui che gli impedisce una corretta respirazione sotto sforzo e non vorrebbe presentarsi con il collo rosso di un aspirante suicida incapace di realizzare un cappio fatto bene, vuoi soprattutto perché si sentono una squadra e anche in quell’arrivare tardi si confermano a vicenda, l’uno accanto all’altro, di corsa, ma senza fretta, monolite indivisibile che non si cura dello sguardo di chi è fuori perché prima di tutto quello sguardo è proiettato all’interno, dentro, ed è da lì che trae la sua forza. Salirono e discesero scale, aprirono e richiusero porte. Nel rimbambimento generale, per cercare il bagno (“l’emozione gioca sempre brutti scherzi”), lui provò ad aprire anche una porta d’emergenza, attirando il brusco richiamo della responsabile della sala, la stessa che, a causa della normale rotazione oraria tra il personale del museo, mezz’ora prima aveva visto la coppia barcollare davanti l’altare di Pergamo definendoli due stupidi. (“Ecco, avevo ragione” si disse poi compiaciuta tra sé e sé”).

Bagno, negozio souvenir e poi, finalmente, l’uscita. Non si erano più baciati ormai da mezz’ora, ma avevano continuato a tenersi la mano. Appena messo piede entrambi i cellulari di entrambi ripresero vita e mentre Laura richiamava il fratello che già due volte aveva tentato di raggiungerla, senza esito, nell’ultima ora, lui leggeva i due messaggi di Erica. “Dove sei? Ti va se ci vediamo per pranzo?” e “Forse è troppo tardi per il pranzo, ma ti va di venirmi a prendere in ufficio alle cinque e fare una passeggiata assieme?”. Rimise il cellulare in tasca. Avrebbe risposto dopo, ma non sapeva ancora come….

(continua)

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@daddioandrea