In Finlandia è stato applicato il reddito di base e i risultati finora sono eccezionali
Dal 2017 il governo finlandese ha varato un esperimento sociale senza precedenti in Europa: per i prossimi due anni duemila cittadini percepiranno un reddito di base di 560 euro al mese, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa.
Il progetto, chiamato Kela e introdotto da un esecutivo di centro-destra, si propone di verificare gli effetti di un reddito universale e incondizionato sui livelli di occupazione e di benessere dei cittadini, oltreché di semplificare con decisione la burocrazia legata al welfare. In Finlandia, infatti, il sistema di ammortizzatori sociali per chi non lavora (l’8 percento della popolazione) è particolarmente articolato e generoso e rischia dunque di costituire un disincentivo alla piena occupazione, poiché molti finlandesi disoccupati preferiscono continuare a percepire il sussidio anziché impegnarsi nella ricerca di un nuovo impiego. Il reddito di base mira a eliminare alla radice questo problema, in quanto è destinato a un campione di cittadini tra i 25 e i 58 anni indipendentemente dalla loro condizione lavorativa: disoccupati, inattivi, sottoccupati, ma anche lavoratori pubblici, imprenditori privati, studenti. Chi durante i due anni trova lavoro, non deve rinunciare ai 560 euro. Nessuno è tenuto a dichiarare in che modo spende il suo assegno mensile, né a dimostrare che sta facendo tutto quanto in suo potere per rientrare nel mercato del lavoro, ad esempio piegarsi a sostenere qualsiasi tipologia di colloquio proposto dal job center.
Calano stress e depressione
Uno dei primi risultati ottenuti dal Kela – che ha i suoi precedenti in alcuni esperimenti come quello condotto a Dauphin e più recentemente in Ontario, Canada, in Alaska o in altri progetti avviati in India, Namibia e Kenya – è il drastico miglioramento della salute mentale dei suoi destinatari. I livelli di stress e depressione registrati sulla popolazione campione, come racconta la responsabile del Kela Marjukka Turunen, sono sensibilmente calati. Si tratta di un dato probabilmente poco sorprendente: la possibilità di non dover sottostare alla schiavitù del lavoro ad ogni costo, accettato e svolto per la mera sopravvivenza, o di non dipendere dalle logiche pervasive e ricattatorie di sussidi come l’Hartz IV tedesco; l’opportunità di alleviare le difficoltà economiche e lo stigma sociale derivanti dalla disoccupazione e dalla povertà; la libertà di poter studiare, formarsi, prendersi cura dei propri cari, di elaborare un progetto esistenziale o professionale con la sicurezza – materiale e psicologica a un tempo – di un’entrata minima, sì, ma garantita: sono tutte ragioni sufficientemente valide a spiegare i benefici effetti del Kela sulla salute mentale dei duemila partecipanti all’esperimento finlandese.
D’altronde, tra disuguaglianza, insicurezza economica e disagio psichico esiste un legame molto stretto. Lo testimonia il buon senso, e lo confermano anche alcune recenti ricerche. Oggi, scrive Amy Downes sull’Independent, «le persone sono afflitte dall’incertezza per il posto di lavoro, da disoccupazione, povertà, condizioni esistenziali precarie, insicurezza finanziaria, disuguaglianze sociali ed economiche – tutti problemi sempre più diffusi nel libero mercato capitalistico delle società occidentali. Tali fattori causano alti livelli di stress, specialmente su coloro che occupano i gradini più bassi della piramide economica, vale a dire il vasto – e crescente – numero di persone che vive alla giornata, con un reddito estremamente basso e senza alcuna rete di sicurezza alle sue spalle. Un reddito di base garantirebbe uno standard minimo di sicurezza e salute a tutte queste persone, offrendo loro un fondamento modesto ma efficace per trovare in sé quel surplus di energia, motivazione, felicità e volontà sufficienti a perseguire i propri scopi, proprio come possono fare liberamente coloro che vivono nell’agio, sebbene diano totalmente per scontata tale condizione».
Photo © Sami C: Helsinki, Finland – CC BY 2.0
I rimedi alla crisi del lavoro
Considerate la perdurante crisi globale e la disoccupazione, gli effetti nefasti e inesorabili della globalizzazione, l’esplosione della robotica – secondo alcune stime attendibili, tra vent’anni nel mondo occidentale sarà possibile automatizzare tra un quarto e un terzo del lavoro attuale – gli unici strumenti per arginare i disastri dell’economia politica, «scienza dell’infelicità» secondo la celebre definizione di Marx, sembrano essere proprio l’introduzione di un reddito di cittadinanza, l’istituzione di un salario minimo internazionale e la riduzione dell’orario di lavoro. Che quest’ultima contribuirebbe indubbiamente a lenire la sofferenza di chi lavora troppo e di chi non lavora affatto, mentre il salario minimo internazionale costituirebbe un’efficace arma contro il dumping salariale e la delocalizzazione selvaggia, non sembrano cose dubbie.
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Ma il reddito di base rende davvero pigri?
Invece il reddito di base è una misura che, pur invocata da più parti, solleva enormi perplessità perché mina alla radice un assioma ritenuto fino a oggi sacro, tant’è che lo hanno condiviso figure antitetiche come Paolo di Tarso e Stalin: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi». L’idea che il diritto all’esistenza e alla non-povertà possa essere svincolato dal lavoro salariato e garantito mediante un contributo minimo erogato a tutti i cittadini suona alle nostre orecchie stacanoviste come un’eresia. L’obiezione che viene mossa più comunemente al reddito di cittadinanza – oltre a quella della sua insostenibilità finanziaria – è infatti praticamente la stessa fin dai tempi della Poor law di Elisabetta I, nel 1601: la sussistenza deve essere mediata dal lavoro, mentre l’ozio renderebbe i poveri pigri e immorali. Ora, secondo i primi seri studi sociologici condotti sull’argomento, quest’idea è quantomeno discutibile. Nei paesi che hanno sperimentato il reddito di cittadinanza (Dauphin, Canada, 1975; Alaska Permanent Fund, dal 1976; Finlandia 2017, esperimento tuttavia ancora in corso) non si è registrato alcun calo significativo della produttività, se non presso giovani e neo-mamme, che hanno utilizzato il contributo percepito per prolungare gli studi e accudire i loro bambini. Le analisi hanno invece evidenziato, oltre al già citato decremento delle disuguaglianze sociali, delle sindromi depressive e dei tassi di ospedalizzazione, una maggiore tendenza dei percettori di sussidio a sviluppare progetti imprenditoriali autonomi o ad aggiornarsi per trovare un lavoro più adatto alle proprie inclinazioni.
Il reddito universale non conduce al rifiuto del lavoro
Ciò che al momento molti oppositori del basic income non comprendono, neanche all’interno della sinistra lavorista, è che esso non esprime affatto un rifiuto del lavoro tout court, bensì soltanto del lavoro vissuto come imposizione penosa, come ricatto per la sopravvivenza. Il reddito di base, in tal senso, potrebbe significare soprattutto libertà. Quella libertà di rispondere, come lo scrivano Bartleby di Herman Melville, I would prefer not to dinanzi alla prospettiva di una mansione mortificante; libertà di scegliere un lavoro in cui ci si riconosca e di cui si riesca a cogliere il senso; ma anche libertà – perché no – di scoprire senza vergogna o sensi di colpa che la propria realizzazione più autentica potrebbe non passare attraverso il lavoro. Se queste premesse si rivelassero fondate, il reddito di cittadinanza costituirebbe un formidabile strumento di trasformazione psico-antropologica dell’umanità: individui meno stressati e depressi applicherebbero le loro rinnovate energie a una riscoperta disinteressata e appassionata dello studio, del lavoro, del tempo libero. Che da Helsinki arrivi un sentiero percorribile per questo Occidente stanco, malato di culto della performance e privo di idee?
Foto di copertina © Morianna, Pixabay – CC0 1.0
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