In Cina esistono campi di prigionia per musulmani da “rieducare”
Succede in Cina, dove i musulmani vengono detenuti in campi di rieducazione in cui sono obbligati a mangiare carne e bere alcol.
Una vera e propria tortura che dura giorni, settimane, mesi. Una commissione statunitense l’ha chiamata la “più grande incarcerazione di massa di una popolazione minoritaria nel mondo al giorno d’oggi”. Uno storico azzarda invece l’espressione “pulizia etnica”. Si chiamano campi di rieducazione, e hanno cominciato a diffondersi dalla scorsa primavera nella regione di Xinjiang, nel nord-ovest della Cina. Si parla di centinaia di migliaia di musulmani imprigionati e costretti alle più terribili torture.
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La storia di Omir
A parlarne è Omir Bekali, una delle vittime dei campi. Non ha avuto possibilità di replica, nessun avvocato ha potuto difenderlo. Bekali viene dal Kazakistan, ed è musulmano. È stato costretto a rinunciare alle sue credenze per lodare il governo comunista, lo stesso che ha permesso la sua incarcerazione. Ha passato 7 mesi in prigione, e già dopo i primi 20 giorni aveva pensato al suicidio, commenta. Quando inizialmente il prigioniero si rifiutò di obbedire agli ordini venne obbligato a guardare un muro per 5 ore al giorno. Dopo appena una settimana fu mandato in isolamento, rimanendo senza cibo per 24 ore. Omir piange mentre racconta tutte le violenze che ha dovuto subire. Un incubo che rivive ogni notte quando va a dormire, e che non gli dà pace.
Come avvennero la cattura e l’incarcerazione
Bekali oltrepassò il confine cinese la mattina del 23 marzo 2017 dopo aver lasciato la sua casa nella città di Almaty, Kazakistan. Lo scopo del viaggio in Cina era lavorativo, e Omir non era cosciente della conseguenze che avrebbe avuto quel timbro sul suo passaporto kazako. Nato in Cina nel 1976 ma con genitori kazaki e uiguri – un’etnia turcofona di religione islamica – Omir si trasferì in Kazakistan nel 2006, dove ricevette la cittadinanza tre anni dopo. A Xinjiang ci sono circa 12 milioni di musulmani, tutti schedati e sorvegliati dalle autorità governative. Fare chiamate verso l’estero, visitare un sito web straniero, pregare regolarmente o farsi crescere la barba sono tutti rischi che possono portare alla prigionia e all’indottrinamento forzato. Bekali di tutto ciò non sapeva nulla. Una volta passato il confine andò a trovare i suoi genitori. Il 26 marzo la polizia lo prelevò dalla casa natale con un mandato di arresto proveniente da Karamay, una città di frontiera dove aveva vissuto una decina d’anni prima. Non gli diedero la possibilità di chiamare i suoi genitori né un avvocato, in quanto considerato un “caso speciale”. Da quel giorno iniziò un incubo durato ben 7 mesi.
Il periodo di prigionia
Omir Bekali venne rinchiuso in una cella senza possibilità di comunicare per una settimana, per essere poi spostato al distretto di sicurezza della polizia di Baijiantan, a Karamay. Una volta arrivato fu legato a una cosiddetta “panca della tigre”, uno strumento di tortura usato per l’allungamento degli arti. Un’altra violenza subita dal prigioniero fu quella di legargli i polsi a delle inferiate obbligandolo a stare in punta di piedi per non mettere troppa tensione sulle spalle. L’interrogatorio, poi, riguardava il suo lavoro in un’agenzia turistica che invitava i cinesi a far richiesta per il visto turistico in Kazakistan. Invito che, secondo le autorità cinesi, poteva implicare l’aiuto da parte dell’agenzia a far scappare i musulmani cinesi dal Paese. Gli chiesero inoltre tutto ciò che sapeva riguardo alcune persone sotto accusa. Una volta finito l’interrogatorio Bekali fu messo in una cella di 10 metri quadrati insieme ad altri 17 prigionieri. Omir venne obbligato a indossare un’uniforme arancione, a simboleggiare crimini di tipo politico. Il rilascio avvenne solo 7 mesi dopo, e fu improvviso tanto quanto l’arresto. L’incubo, però, non era ancora finito.
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La rieducazione nel campo
Una volta uscita di prigione, la vittima fu portata in un campo di rieducazione al nord di Karamay. Qui più di mille internati erano detenuti in tre edifici dove subivano un’indottrinazione di tipo politico. Il prigioniero kazako venne chiuso in una cella con altre 40 persone. Qui conobbe dottori, studenti e insegnanti, tutti colpevoli di credere in una religione considerata sbagliata. Nemici dello Stato, personaggi pericolosi. Menti da rieducare, identità da ricreare, se necessario con la forza. Uomini e donne venivano separati all’entrata del campo. Il programma rieducativo prevedeva la sveglia all’alba con alzabandiera alle 7.30. Terminato il rito iniziale gli internati venivano costretti a imparare canzoni e inni al partito, come “senza il Partito Comunista non c’è la Nuova Cina”, nonché a studiare il mandarino e la storia del Paese. Prima del pranzo i detenuti dovevano recitare all’unisono “grazie al Partito! Grazie alla Madrepatria! Grazie al Presidente Xi!”. La parte peggiore, racconta Omir, riguardava le infinite ore di indottrinamento forzato dove, oltre a rinnegare il proprio credo, gli internati erano obbligati a dare il proprio appoggio al Partito.
Quella di Omir Bekali non è l’unica testimonianza
Bekali non è il solo ad aver raccontato cosa succede all’interno dei campi. A metà del 2017 un reporter della TV di Xinjiang conosciuto come Eldost fu obbligato a insegnare la storia e la cultura cinese durante il processo rieducativo dei prigionieri. Raccontò che il sistema prevedeva tre livelli di sicurezza e durata delle sentenze: un primo gruppo era formato da una minoranza di contadini analfabeti la cui unica colpa era quella di non parlare mandarino. Il secondo livello vedeva protagoniste quelle persone che erano state trovate con testi di contenuto religioso o separatista nei loro smartphone. Infine, il terzo gruppo racchiudeva quelli che avevano studiato religione fuori dal confine ed erano poi rientrati in Cina, nonché chiunque avesse con sé materiale di studio non cinese. Per quest’ultima classe di prigionieri la detenzione poteva raggiungere i 15 anni. Eldost raccontò che ogni notte, al coricarsi, qualcuno piangeva. “Era la cosa più straziante, è stata l’esperienza più triste della mia vita”. L’insegnante riuscì a scappare dal Paese nell’agosto 2017, dopo aver pagato una mazzetta.
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Le risposte date dal governo cinese
The Independent ha contattato il ministro degli Esteri cinese, chiedendo un commento sui campi. Alla domanda il ministro ha risposto di “non aver mai sentito parlare” della situazione. Alla richiesta di spiegazioni sul perché gruppi di persone non cinesi fossero detenute ha risposto che il governo cinese protegge i diritti degli stranieri nel Paese con leggi in atto da moltissimo tempo. Gli ufficiali di polizia della regione di Xinjiang hanno preferito non rilasciare commenti. Bekali è ora libero, ma la sua intera famiglia è stata arrestata. Omir ha quindi deciso di parlare, conscio di aver ormai già perso tutto se non la speranza di far terminare questo incubo attraverso la sua testimonianza.
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Foto di copertina: Bandiera cinese, © Gary Lerude, BY – ND CC 2.0