Erano gli anni del peer to peer analogico
Erano gli anni del peer to peer analogico, quelli che davi al tuo amico una cassetta vergine affinché lui ci copiasse sopra la sua o che passavi il pomeriggio attaccato alla radio con la speranza che prima o poi passassero la canzone che volevi tu e tu dovevi essere lì pronto a spingere Rec e a registrarla sperando che il deejay non la interrompesse poco prima della fine e se lo faceva e non trovavi di meglio succedeva che quella voce del deejay l’avresti sentita per anni e ti facesse strano quando, ascoltando la stessa canzone altrove, esattamente ad un determinato secondo non spuntasse anche quel “abbiamo appena ascoltato….” che ormai era immortalato nella tua versione.
Insomma, erano gli anni che ora sembrano lontani anche se tuttora, a 31 anni, quando oggi dico la mia età qualcuno più grande di me mi dice “sei ancora giovane”. C’è sempre qualcuno più giovane e per me ora, quello era il periodo della gioventù. Ero un ragazzo molto serio, responsabile, sempre attento a non risultare banale nei gusti (sia che si trattasse di cinema che di musica) anche se questa voglia di essere originale era a sua volta un cliché di cui mi sarei accorto solo anni dopo, e mi innamoravo, mi innamoravo come chiunque altro a quell’età, un amore che non era amore, era una cotta, ma per me all’epoca non esisteva differenza. Le mie mire fin dall’inizio dell’anno scolastico erano posate su di una ragazza della classe accanto, un anno più piccola, avrà avuto 12 anni, e non ci parlavo, mi vergognavo, la politica dei piccoli passi mi faceva tornare a casa contento se, lungo le scale per salire in classe, casualmente le avessi sfiorato la mano o avessi almeno avuto qualche secondo per guardarle bene il viso e quegli occhi soprattutto perché quando sei più piccolo gli occhi sono l’unica cosa che ti interessa e all’epoca non c’era bambino che, sentendosi Edward, non amasse la bellezza acqua e sapone di Winona Ryder. E non sapevo se lei mi avesse notato, se quel fermarmi ad allacciare improvvisamente la scarpa proprio davanti a lei, costringendola a cambiare direzione, fosse abbastanza per averle almeno fatto sapere della mia esistenza. E poi passano i giorni, le settimane, le vacanze di natale, pasqua, qualche giorno di febbre, e quella politica dei piccoli passi sembra ferma, neanche una ditata più avanti e la fine della scuola sta per arrivare e forse non vale più la pena e poi l’anno prossimo stai al liceo, non la vedresti più e dai, no, non fare figuracce, non lanciarti, e la timidezza vince perché è più facile non fare che fare, e l’estate passa e ne passano altre e alla fine te ne dimentichi fin quando, ieri, non scorgi un viso nella folla mentre devi prendere la U-Bahn, e ti sembra lei e in un attimo torni indietro nel tempo, torni alla tua timidezza, torni a quando dalla finestra un sole che splendeva significava che appena finiva scuola saresti andato al parco a giocare a calcio, torni a quando non finivi i compiti e d’estate ti svegliavi con l’incubo di avere l’interrogazione il giorno dopo, senti tutto come se fosse non 17 anni fa, ma ieri, oggi, un attimo fa, anche se quella ragazza non è lei, ma qualcuno che le assomiglia, o meglio, somiglia alla proiezione che tu hai di lei con una manciata di anni in più e ti chiedi se anche tu assomigli ora a ciò che volevi essere all’epoca e rispondendoti “non penso, oggi quella ragazza la fermerei, ci parlerei, poi magari neanche mi piace” ti viene da sorridere perché nel profondo hai capito che una delle cose più belle della vita è che ci possiamo sorprendere. Non solo degli altri, ma di noi stessi. Perché gli anni passano, ma noi osserviamo, impariamo e, si spera, cambiamo. A Berlino, come altrove.