Diari di viaggio, dal Check Point Charlie alla Transiberiana con la Storia nello zaino
È un caldissimo pomeriggio di giugno. Passeggiando lungo la Friedrichstraße raggiungo il Checkpoint Charlie. È pieno di ingombranti turisti che, incastrati con i loro zaini nei claustrofobici cunicoli dei negozi di souvenir, pensano a cosa portarsi indietro nel loro Paese d’origine o, guardando il centro del marciapiede, finiscono con l’optare con una foto ricordo ad uno dei soldati in divisa tutti tronfi e sorridenti. Sudo al solo guardarli. Sono troppi, e i loro sorrisi durante i “cheeese” sono finti come le divise dei miltari. Distolgo lo sguardo e mi allontano, in cerca di refrigerio. Lancio un’occhiata al palazzo che ospita il Checkpoint Charlie Museum; lungo la facciata è stesa “die letzte Kremlfahne”, la finta (l’originale è conservata all’interno del museo), ma ormai logora, ultima bandiera dell’Unione Sovietica. La guardo come un monito. All’epoca del muro il potere di Mosca aveva qui uno dei suoi confini. L’altro si estendeva fino a Vladivostok lungo le coste dell’Oceano pacifico, un altro mondo, difficile anche solo da immaginare.
Tornato in Italia quell’immagine non mi lascia. Checkpoint Charlie è con me. Non la parte turistica, ma quella simbolica. Penso a Vladivostok, all’utopia di unire sotto un’unica bandiera luoghi, storie, culture così diverse, alla follia di chi ha tentato di realizzarla, al fascino misterioso di una meta così distante. Vladivostok.
Sull’onda emotiva di questa fascinazione organizzo con un amico un viaggio lungo la Transiberiana. Poco tempo dopo il mio ritorno da Berlino, sto riempiendo nuovamente la valigia: la mia inseparabile fotocamera, un numero imprecisato di schedine SD, qualche vestito e una maglietta nuova, comprata a Charlottenburg durante quel caldissimo fine settimana.
Parto. Mosca, Novosibirsk, Irkutsk, l’immensità della taiga siberiana, Khabarovsk e, finalmente Vladivostok, che ci accoglie sotto la pioggia. Oltre 9000 km, 9 fusi orari, un bagaglio emotivo di volti, suoni, colori e sensazioni che non pesano nella valigia, ma che ormai ho con me come quella maglietta comprata a Berlino, ancora in fondo alla valigia, intatta più per caso che per voglia di preservarla, e che ormai ha assunto il ruolo di cimelio. Manca un giorno prima che riparta per l’Italia e decido di indossarla prima di uscire alla volta del grande ponte sospeso sulla baia. Durante il tragitto, rigorosamente a piedi, ripenso al Checkpoint Charlie, a quella bandiera e al messaggio di cui si è fatta portatrice.
Vladivostok è una strana città. Le commistioni artificiose che la compongono le danno un’aria incomprensibile. Mentre tento, senza riuscirci, di far assomigliare quei luoghi ad altri già visti, ecco il ponte; il capolinea di un viaggio iniziato con la mente, prima ancora che con il corpo, durante un caldo pomeriggio di giugno sulla Friedrichstraße. In quel momento, nonostante mi trovassi dall’altra parte del mondo, ho sentito forte il legame con Berlino. Mi ero allontanato a tal punto da riavvicinarmi improvvisamente. La distanza, la diversità, il tempo non esistevano più, grazie alla suggestione di un momento, grazie alla forza delle idee.
Da allora non ho ancora avuto occasione di tornare a Berlino, ma sono sicuro che, appena lo farò, passeggerò lungo la Friedrichstraße fino al Checkpoint Charlie per poter osservare di nuovo quella finta bandiera rovinata per davvero. E chissà cosa mi comunicherà ora che porto dentro di me il ricordo del grande viaggio lungo quell’utopia che porta fino a Vladivostok.
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