Cari astensionisti sulle trivelle, ecco perché avete fatto il gioco di chi dice #ciaone
Da domenica leggo sui social parecchi commenti sprezzanti nei confronti di chi è andato a votare al referendum sulle trivelle. Non provengono dall’Ernesto Carbone di turno (quello del #ciaone che ha irriso non solo 16 milioni di votanti ma, in fondo, tutti i cittadini), bensì da persone tendenzialmente di sinistra o, ad ogni modo, sensibili alle tematiche ambientali. Questi commenti – a volerne trovare il tratto comune – insistono sulla complessità del quesito referendario, troppo specifico perché un «popolo di caproni» come quello italiano possa rispondervi; rivendicano fieramente il diritto all’astensione, deridono l’idiozia delle motivazioni addotte dai sostenitori del sì e li accusano di lavarsi la coscienza con l’atteggiamento del buon borghese, che mette una crocetta su un foglio e pensa di aver fatto tutto il suo dovere.
Ora, è vero che il quesito era volutamente tecnico, parziale e confuso (ma è il governo che lo ha reso così: facendo cadere gli altri cinque, non accorpando il referendum con le amministrative e adottando tutta una serie di sporchi mezzucci mediatici per distruggere la consultazione dall’interno, si pensi in primis alle dichiarazioni di Renzi e Napolitano); è vero che l’astensione è un diritto (ma gli inviti a non votare da parte di due alte cariche dello Stato restano indecenti); è vero che scrivere «se ami il mare e vuoi che i tuoi nipotini possano fare il bagnetto vota sì», come hanno fatto certi fautori del sì, è un attimo una semplificazione retorica; è vero, infine, che un voto non è sufficiente, se poi non si sostengono le lotte e le rivendicazioni dei territori contro le speculazioni di chi vuole divorarli.
Ma, mi chiedo, mentre queste persone fanno le pulci a chi sostanzialmente sta dalla loro stessa parte, non si sentono un po’ male a essere gli utili idioti dei Renzi e dei Carbone, cioè di sciacalli asserviti ai signori del fossile? Perché, non so se se ne sono accorti, il potere non fa la minima distinzione tra astensionisti rivoluzionari e consapevoli e astensionisti beoti che hanno speso la domenica tra talk-show pallonari e centri commerciali: li sfrutta allo stesso modo e forse, anzi, i primi gli regalano un ghigno ancora più arrogante e soddisfatto.
Non penso si debba essere Frank Underwood in House of Cards per rendersi conto che questo referendum aveva un grande valore simbolico e politico: al di là del quesito specifico, una vittoria del sì avrebbe indicato una precisa volontà popolare di superare il fossile e virare con forza sulle energie rinnovabili, cosa che i paesi con un minimo di lungimiranza stanno già facendo da anni: la nient’affatto bolscevica Germania vuole rendersi indipendente dal fossile e dal nucleare entro il 2050, e già ora ricava dalle rinnovabili il 28% (Svezia, Islanda e Norvegia già più del 50%) mentre il governo Renzi, forse pago dei parziali successi nel settore fotovoltaico, si accontenta del 17% entro il 2020, taglia i fondi alle fonti verdi e stende tappeti rossi ai petrolieri.
L’essersene infischiati del referendum, invece, verrà facilmente interpretato come un «mi stanno bene le concessioni sine die alle multinazionali» o un «questione troppo complessa, facciamo decidere a chi ne capisce» e dunque nel lasciare mano libera a un governo che, dall’Eni, si fa dettare pure cosa dire all’Egitto sulla tragedia Regeni e che annovera tra le sue fila personaggi specchiati e disinteressati come il ministro Guidi, quella dello scandalo Tempa Rossa.
Con tutti i distinguo del caso, anche i referendum su divorzio e aborto, se non li si guarda col senno di poi, ponevano questioni complesse e dibattute, ma in quei grandi appuntamenti di civiltà non mi pare siano andati a votare solo medici e civilisti. Eppure, il popolo seppe capire da che parte soffiava il vento del (vero) progresso. A questo proposito vadano a vedere, gli elitisti del non voto e del disprezzo per il popolo, come si è comportata la Basilicata, una regione che ha sperimentato le «magnifiche sorti e progressive» degli idrocarburi: quorum raggiunto e un plebiscito di sì (96%) a contestare le devastazioni del territorio e le menzogne su aumento dei posti di lavoro e crescita economica legati all’oro nero.
Ah, due ultime annotazioni: quando fanno eco a Renzi sui presunti posti di lavoro salvati, i Robespierre dell’astensione non dimostrano di essere poi così informati: con la vittoria del sì, la prima concessione sarebbe scaduta tra due anni (le ultime addirittura nel 2034). Ora, uno Stato degno di questo nome sa ricollocare la sua forza-lavoro quando pianifica una svolta energetica, e avrebbe avuto tutto il tempo per farlo.
E infine: forse alcuni ne saranno inorriditi ma, in un Paese in cui ormai non ci sono più elezioni politiche e il Presidente del Consiglio trasforma ogni appuntamento elettorale in una prova di forza muscolare e personalistica sulla sua legittimazione a governare, è davvero così stupefacente che un referendum possa servire anche a dare una spallata a uno dei peggiori governi della storia repubblicana? Non facciamo le educande: la politica è pure questo, e l’astensione ha fornito a Renzi la possibilità di intascarsi come vittoria quella che è solo una sconfitta altrui.
Per coerenza, dai puristi che domenica sono rimasti a casa, ora mi aspetto barricate quotidiane e lavoro infaticabile sui territori. Altrimenti la loro sarà stata solo l’ennesima riproposizione di quel nefasto fiat iustitia, et pereat mundus che, nella storia della politica italiana (e soprattutto a sinistra) ha causato i peggiori disastri.
Foto di copertina © Ernesto Carbone – Twitter