Berlino significa ascoltare
Sono le 15:30 del 7 ottobre, metro di Berlino, primo vagone della U5, la linea che collega Alexanderplatz con l’est di Berlino. Ho passato le ore del pranzo acquistando spezie turche e dell’ottimo pane al sesamo il cui odore attira su di me gli avidi sguardi dei passeggeri che mi circondano. Stanco della mattinata, appoggio la testa sul vetro che accompagna sempre il primo posto vicino alle entrate dei vagoni. Fermata Strausberger Platz. Le porte del vagone si aprono e davanti a me, in piedi, si ferma un bambino biondo, capello corto, jeans ed una maglietta con la fantasia di un cartone animato di cui non riconosco i protagonisti, sempre che sia davvero un cartone animato e non un fumetto o un disegno nuovo di zecca. Non è solo. Gli tiene la mano il papà, anche lui biondo, anche lui con i jeans e se ha una maglietta non si vede, visto che indossa una felpa azzurra. Dal polso si nota l’inizio di un tatuaggio che forse continua sull’avambraccio. Stanno parlando da prima, la loro conversazione sarà iniziata mentre stavano aspettando che passasse la metro.
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Sono distratto, ma improvvisamente le mie orecchie captano l’affermazione del bambino. “Ich bin schwul!” (Io sono gay!). Il padre lo guarda negli occhi. Mi aspetto che rimanga basito davanti una tale affermazione, sono curioso e allo stesso tempo preoccupato di ciò che potrà rispondergli. Non c’è più nessun odore di pane intorno a me, nessuna altra conversazione tra passeggeri o rumori di porte che si richiudono. Ci sono loro ed io, anonimo spettatore alle prese con una suspense che cresce proporzionalmente al numero di attimi che si susseguono in attesa della risposta. Gli vedo aprire la bocca, lo sento emettere la prima sillaba, poi la seconda, la terza e così via, ecco che l’ha detto. “Ok, ma hai già il fidanzato?“.
Ecco, forse non c’era risposta più giusta. Li guardo e nel cuore sorrido. Li sento continuare a chiacchierare. Sembrano amici, ma sono padre e figlio. Il primo sta insegnando al secondo tolleranza e apertura mentale, non ad essere gay, ma a porsi delle domande, sia sugli altri che su sé stessi. Mi vengono in mente le scene degli italiani che in questi giorni si mettono in piedi nelle piazze leggendo libri, sentinelle di un “giusto modo di vivere” che è giusto solo per loro che guardano solo in un punto, peraltro rivolto verso il basso perché non hanno la forza di guardarsi intorno.
Foto © NervousEnergy CC BY SA 2.0