Berlino, Kreuzberg, Kottbusser Tor. Come imparare ad amare il brutto

-Solo cinque minuti, lo giuro

Bruta mi guarda col suo solito sguardo languido e la coda tra le gambe.

-Cinque minuti e torno. A casa non abbiamo neanche il latte

Mentre la mia mano affonda nel pelo morbido intorno al suo collo, lancia un guaito e cerca di divincolarsi dal guinzaglio che la tiene legata a una delle tante ringhiere per le biciclette. Mi assicuro che sia ben allacciato, un’ultima carezza e a passo veloce entro nel supermercato.

Un tepore inaspettato mi accoglie insieme a gigantografie di panini e cornetti; carote e cetrioli enormi luccicano di un arancione e verde quasi fosforescente. Dimentico il grigiore che c’è fuori, sempre, in ogni stagione, sia col sole che con la pioggia.

Non ho mai pensato che Kottbusser Tor sia un bel posto, ma all’inizio mi faceva meno schifo. Poi col passar del tempo, decine e decine di appuntamenti presi di fronte al Kaiser’s, davanti a Rossmann o all’Istanbul Supermarket, ho cominciato a scoprire- a qualsiasi ora del giorno – dettagli sempre più squallidi. E non c’è prospettiva che si salvi. Dall’alto, dal basso. Da sobrio, da ubriaco. Fa sempre schifo. Gli edifici, per esempio: dei mostri in cemento. Il traffico: un casino. La gente, tutta, senza eccezioni; da sola o in gruppo; me compreso: schifo. Per non parlare dei vetri e delle cicche per terra.

Ma a Bruta piace. Me ne rendo conto ogni volta quando svoltiamo l’angolo e lei comincia a sniffare ai piedi del Photoautomat, cercando di intrufolarsi tra le gambe dei turisti per farsi immortalare insieme a loro. Deve piacerle l’odore intenso di piscio negli anfratti più reconditi e quello di kebab diffuso nell’aria. E poi è innamorata. Una volta, aveva appena tre mesi, il fruttivendolo della piazza le regalò un’intera carota, mentre da me era abituata a riceverne solo gli scarti. Da allora, se ci avviciniamo al banchetto, Bruta spinge con forza per andare nella sua direzione. E una carota è sempre lì, pronta per lei.

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Sono nel supermercato. Acchiappo il latte, mi fermo un attimo di fronte alla teca dei formaggi e al mio passaggio mi bracca una signora in cerca di aiuto: non trova il prezzo delle fragole surgelate.

-Mi può dare una mano?

A dicembre, le fragole? penso stupito, ma rimango in silenzio. Lei continua

-Basteranno 300 gramm? Mia figlia vuole farci una specie di mousse. Sa, è il compleanno di suo marito.

Non rispondo. Penso a Bruta fuori al freddo. Scappo verso il tapis roulant.

Al piano di sopra vengo intercettato per una degustazione di caffè. Cedo all’ offerta e assaggio. «Sono delle cialde speciali», mi spiega la venditrice in berlinese stretto, mostrandomi con dovizia di particolari il macchinario e decantandone i vantaggi qualità prezzo. La liquido con un sorriso. Mancano solo i croccantini per Bruta. Grazie a dio non è venerdì sera e alle casse non c’è quell’orrenda e abituale fila di giovani con birre e patatine in mano. Corro fuori: eccola! Bruta mi vede e comincia a muoversi convulsamente a destra e a sinistra, la coda pare un’elica. Da lontano, David Guetta- ritratto in un cartellone pubblicitario- mi osserva con sguardo giudicante e capello selvaggio. «Listen», mi intima. «Ma chi sei? », gli rispondo tra me e me.

La gente passa e ci sorride. Forse Bruta ha ragione: alla fine qui così schifo poi non fa.

(Racconto scritto durante il Laboratorio di scrittura creativa a Berlino “Gli scrittori emigranti” organizzato da Homo Scrivens in collaborazione con Berlino Cacio e Pepe Magazine. Per informazioni riguardo i prossimi corsi, scrivete a scrittoriemigranti@gmail.com) 

Photo metà articolo © Alper Çuğun CC BY SA 2.0

Cover Photo © Igor Schwarzmann CC BY SA 2.0