Intervista a Massimo Zamboni (CCCP): “Berlino è stata una delle mie patrie”
Dal memoir berlinese “Nessuna Voce Dentro” all’album “La mia patria attuale”. L’intreccio invisibile che lega luoghi e progetti di Massimo Zamboni (CCCP – CSI).
Telefono a Massimo Zamboni per dialogare con lui sui progetti che lo hanno visto impegnato negli ultimi due anni. A febbraio 2024 è tornato a Berlino con i compagni Giovanni Lindo Ferretti, Danilo Fatur e Annarella Giudici per celebrare – nella città che li ha visti nascere – i quarant’anni dalla pubblicazione del primo EP Ortodossia. Tre concerti sold out all’Astra Kulturhaus, in cui i CCCP hanno ancora una volta suscitato reazioni contrastanti, dividendo il pubblico tra entusiasmo e critica (qui il resoconto del concerto inaugurale).
Da anni Zamboni abita i paesaggi montuosi di Reggio Emilia: «La gente pensa che io viva fuori dal mondo, quando, in realtà, io credo che sia fuori dal mondo chi vive nelle grandi città e nelle metropoli». Luoghi esteticamente antitetici rispetto allo scenario urbano della capitale tedesca, dove invece le montagne sorgono sui detriti di una guerra che ha lasciato cicatrici profonde e inestinguibili.
Tuttavia, per quanto vasta e diversificata sia la produzione di Zamboni – ispirata non soltanto da Berlino e Reggio Emilia, ma anche dalla Bretagna, Firenze, Mostar, dalla Mongolia, Beirut, Praga, Shangai, Auschwitz, Rimini; e poi Dresda, dall’Islanda, dalla Bulgaria e oltre – resta invariata l’inquietudine di fondo che ha pure motivato il suo peregrinare. Un atteggiamento interrogativo volto alla conoscenza di sé e della realtà circostante. Lo stesso che prende forma nelle pagine di Nessuna voce dentro – un’estate a Berlino Ovest (Einaudi, 2017): pubblicazione che racconta il primo viaggio in autostop verso la città tedesca, nel 1981.
L’eredità pasoliniana e lo spettacolo “P.P.P. – Profezia è Predire il Presente”
È quindi con il medesimo slancio che proprio negli ultimi giorni Zamboni ha portato in scena P.P.P. – Profezia è Predire il Presente: uno spettacolo dedicato a Pier Paolo Pasolini e realizzato sulla base della produzione poetica curata dall’intellettuale bolognese. Il riferimento è la raccolta di poesie di origine popolare pubblicate con il titolo di Canzoniere Italiano (Garzanti, 1955), ma la ricerca di Zamboni si estende altresì a quelle figure che, come Pasolini, hanno riconosciuto nella collettività popolare i residui di un’autenticità minata dal mercato neocapitalistico. Fra queste, la musicista e studiosa Giovanna Marini, autrice dell’album Cantata per Pier Paolo Pasolini (Nota, 2001).
Sui suoi recenti studi nell’ambito della cultura popolare Zamboni spiega: «Il concetto di popolo è spesso interpretato negativamente. Pensiamo al popolo come classe operaia, come se si trattasse di qualcuno che sta ai margini o è inferiore». Sottolinea poi come l’intuito e il sacrificio abbiano portato Pasolini a dare forma a un’opera che continua ad avere risonanza.
La drammaturgia P.P.P. – Profezia è Predire il Presente anticipa di un anno il cinquantesimo anniversario dalla scomparsa di Pasolini. Ciononostante, non occorre attendere la ricorrenza per leggere, guardare e ascoltare Pasolini: un autore il cui pensiero continua a mettere in discussione il conformismo culturale e politico.
L’album “La mia patria attuale”
La recente iniziativa di Massimo Zamboni non si discosta dal precedente album La mia patria attuale (Universal Music Italia, 2022).
Per quanto la forma sia diversa – parliamo di un dramma e di un album – i due contributi prendono avvio da concetti che condividono tratti comuni. “Popolo” e “patria” sono difatti espressioni derivate da un senso di collettività e di memoria condivisa. Sentimenti che in passato hanno giustificato totalitarismi e che, per tale ragione, in un quadro politico mondiale sempre più orientato al nazionalismo, continuano a suscitare tensioni. Sulla riappropriazione del termine “patria”, Zamboni osserva: «Credo che si possa restituire un senso positivo alla parola patria. Nonostante sia una parola troppo spesso pronunciata da bocche che ti fanno venire voglia di scappare lontano. Ricordiamo che anche i partigiani hanno preso le mosse proprio da quella parola, definendosi Patrioti». C’è una presa di coscienza del fardello di significati che questa parola porta con sé, nel bene e nel male.
Sul piano musicale, La mia patria attuale ha un carattere cantautorale, diverso dalla precedente produzione. «Negli ultimi anni sto scoprendo questo genere di composizione. Sembra crudo e gli arrangiamenti sono molto sobri».
Pochi sperimentalismi, più strumenti acustici e un ritorno alla forma canzone. «Ho usato gli stilemi propri di questa patria, se fossi stato in Germania avrei usato una musica elettronica più violenta». Il richiamo al Paese non avviene attraverso l’uso di strumenti della tradizione popolare – il produttore è Alessandro “Asso” Stefàna – ma tramite il riferimento a pratiche culturali che si mescolano inevitabilmente a temi attuali. Gli Altri e il Mare – brano di apertura dell’album – è una preghiera laica in cui il mare invocato nella coda diviene portatore al tempo stesso di salvezza e sofferenza. Quest’ultima è una condizione che pure caratterizza il Canto Degli Sciagurati: enunciazione mononota, collettiva e rituale di un malessere che opprime chi vive ai margini. Su questo punto, Zamboni aggiunge: «La classe dirigente è una classe digerente».
La mia patria attuale è però anche un auspicio – «E frenetica, la vita / Brucia e brulica / La pausa vuota e arida / Non giunga mai» (Italia Chi Amò) – e una porta aperta: «Ma verrà il tempo che germina il grano / S’aprirà un solco sui volti infelici / Verrà quel tempo e ci sembrerà strano / Di essere stati l’un l’altro nemici» (Tira Ovunque Un’aria Sconsolata).
Gentrificazione a Berlino
Eppure il riferimento temporale del titolo dell’album lascia sottintendere che l’Italia non è stata l’unica patria di Massimo Zamboni. «Berlino è stata una delle mie patrie, come lo è stata anche la Mongolia». Continuando, spiega: «Soggiorni che ti rimangono e che ti fulminano. Il conto vero, però, lo puoi fare laddove non puoi scappare. Là, dove ci sono i tuoi morti, la tua lingua, dove c’è la tua cultura profonda, dove c’è la tua scuola».
Avendo Zamboni fatto ritorno a Berlino proprio nei mesi scorsi ed essendosi esibito con i CCCP all’Astra Kulturhaus – locale che occupa gli spazi del RAW Gelände, presto oggetto di un massiccio intervento di riqualificazione – gli domando se pensa che Berlino possa resistere al processo di gentrificazione. La risposta è un istantaneo e ripetuto «No, non lo credo affatto».
Già nel 2017 lo aveva intuito, ripercorrendo e raccontando, fra le pagine del suo libro, le recenti visite nella capitale tedesca: «[Sono tornato] un paio di volte pochi anni dopo, sempre meravigliato dalla piacevolezza di quel vivere cittadino, della capacità di fraternizzare tra cento etnie, della leggerezza del sentirsi padroni della città. Quest’anno, infine, trovandola invecchiata di colpo così come accade alle persone, incanutita e povera, con i suoi tanti sognatori giovani che dormono per strada sotto un cartone, con la schiena già spezzata. E quei manifesti, Potsdamer Platz, a place for shopping!, che trasferiscono l’ansia di progredire verso il produci-consuma-crepa che tutto avvolge. Ma forse questa è stata una impressione ingiusta e decembrina, e ne sono già pentito».
Nonostante la memoria storica stia già iniziando a guardare Berlino con occhi appannati, c’è chi continua a cercarla con il desiderio di accoglienza e accettazione che la città ha saputo offrire in passato.
Il futuro secondo Massimo Zamboni
Constatato il destino a cui Berlino e tutte le grandi città sembrano non potersi sottrarre, Zamboni conclude: «Resta però tanto spazio al mondo: lo spazio delle montagne che nessuno vuole e che io consiglierei invece di cominciare a praticare, prima di essere derubati anche di quello. Si va nella città per guadagnare e si va nella montagna per vivere».
L’idea del futuro mi trasmette curiosità e al contempo angoscia. Ripenso a un’intervista a Italo Calvino, andata in onda nelle televisioni italiane nel 1981, proprio quando Zamboni si apprestava a intraprendere il suo viaggio verso la città del muro. Il giornalista domandava al poeta tre consigli per gli anni Duemila. Flemmatico, Calvino rispondeva: [occorre] imparare delle poesie a memoria, a tutte le età, perché fanno compagnia e lo sviluppo della memoria è importante; fare i conti a mano, per combattere l’astrattezza del linguaggio; e sapere che quello che abbiamo ci può essere tolto da un momento all’altro.
Condivido quest’associazione con Zamboni, chiedendogli se anche lui ha dei suggerimenti per il futuro. Si affida alle risposte di Calvino, ma aggiunge: «Siamo composti anche dalle mani, dalle gambe e una testa ed è necessario ricordarsi come si fa a usarli, evitando l’atrofia della mente e del corpo. Non lo voglio per me e mi sembra curioso che gli altri vogliano questo nella loro vita. È poi importante abitare luoghi periferici, veri, in cui poter fare i conti con il vivere, con il morire, con il nascere, con gli animali, con le piante, con la generazione che continua, con la cura».
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