Morgan Hasenfuß

Morgan, addio all’americano-berlinese “lettore di tarocchi”

Il ricordo di un amico rivolto alla recente dipartita di Morgan Hasenfuß, lettore di tarocchi, e tanto altro, di una Berlino che forse non c’è più

di Stefano Casertano

Morgan era matto, ma così matto che definirlo “matto” non è un giudizio, ma un’osservazione impossibile da smentire, condivisa dalle migliaia di persone con cui è entrato in contatto nella sua esistenza troppo breve. Però anche qui: “troppo breve” forse è un commento ingiusto, perché per come ha vissuto, Morgan è durato anche parecchio. Però tutti speravamo che sarebbe durato un po’ di più, anche se sapevamo che non sarebbe durato a lungo, e la sua dipartita – duole dirlo – ha sorpreso purtroppo solo chi lo conosceva poco. Aveva 42 anni.

Nessuno conosceva il suo cognome o era sicuro che Morgan fosse il suo vero nome. Morgan aveva un cane, un meticcio di levriero, dall’aspetto un po’ spaventato. Morgan adorava la bestiola e anche quando tornava a casa alle sei dalla discoteca, trovava la forza di mettergli il guinzaglio e portarlo a spasso per Kreuzberg. Anche perché Morgan tornava spesso a casa la mattina preso, visto che in discoteca ci lavorava.

Morgan Hasenfuß

Morgan Hasenfuß

Ma non era DJ o barman: di mestiere era “lettore di tarocchi”. Non era però un lettore di tarocchi di quelli tradizionali, amore salute lavoro: Morgan s’infervorava, si agitava, iniziava a saltare e urlare come se fosse posseduto. Ripeteva frasi tipo “Ego is not your amigo” e poi prevedeva sempre cose bellissime. Lasciava in giro dei biglietti da visita scritti uno a uno con una macchina da scrivere, in sedute di battitura che duravano sempre troppo a lungo per chi voleva tornare a ballare.

Si vestiva come una specie di Jack Sparrow finito in un libro di Irvine Welsh. Della sua biografia si sapevano solo notizie incerte, a parte il fatto che fosse americano e che – un tempo – era stato sposato, ma quando lo raccontava non ci credeva nessuno. Si diceva che fosse un jazzista, ma io non l’ho mai sentito suonare. Non ho mai neanche capito se credesse veramente nei tarocchi che faceva, o se fosse solo una paraculata per pagare l’affitto del suo monolocale. Propendevo per la seconda spiegazione, anche se poi in realtà non c’è grande differenza tra l’arte e l’atto di fare arte, per cui per me Morgan era un vero artista.

Quando l’ho conosciuto, peraltro, ancora non faceva i tarocchi. Mi ha detto che di mestiere partecipava ai vernissage e cantava da solo: una performance che descriveva come qualcosa a metà strada tra il rap e la poesia. Allora una volta l’ho invitato a un evento, chiedendogli di proporre – per l’appunto – la performance a metà strada tra il rap e la poesia, e lui per un buon quarto d’ora si è messo a rappare davanti a quaranta persone imbarazzatissime, esplose alla fine in un applauso fragoroso per coprire le risate. Era certamente una performance, ma dadaista. È stato in quel momento che ho iniziato ad adorarlo.

Tanto lo adoravo che una volta l’ho proposto anche a una troupe italiana in visita, per parlare della “Berlino alternativa”. Morgan – gli occhi azzurrissimi che illuminavano la telecamera – ha raccontato che aveva deciso di trasferirsi a Berlino perché nella sua prima notte in città ha visto le stelle che s’ingrandivano e gli dicevano di rimanere in città. Perché Morgan si faceva, ma si faceva pesante, e gli occhi azzurrissimi che illuminavano la telecamera forse la illuminavano un po’ troppo. È così che Morgan è entrato per qualche minuto anche nelle case di milioni di italiani, visto che l’intervista poi è finita anche nel pezzo montato. Il giorno dopo la visita della troupe, Morgan mi ha chiamato per chiedermi se fosse andato tutto bene.

Una volta mi ha chiesto di giocare a tennis, perché a quanto pare al college (ma sarà andato veramente al college?) giocava spesso. È stata un’ora terribile, con lui in calzamaglia che tirava bordate tremende da tutte le parti, e quel colpo su venti che riusciva portava all’interruzione della partita. “È stato un bel colpo, no?” mi chiedeva. Alla fine mi ha abbracciato dicendo che gli avevo fatto un regalo pazzesco, lasciando intendere che non aveva la sua quota per il campo e che non l’avrebbe mai avuta.

Morgan è anche venuto alla mia festa dei quarant’anni su un battello e poi a casa, e la gente non se ne voleva andare più, con lui che continuava a ballare. Alle sei sono andato a dormire e il giorno dopo ho trovato tutte le sedie su tavoli, candele consumate e bottiglie vuote, e sicuramente era stato lui.

 

Quando ho lasciato Berlino non l’ho avvisato, perché non siamo mai stati veramente amici. Come usa, ho scoperto su Facebook che non c’era più. Sulle circostanze della sua morte non c’è chiarezza – neanche qui. Si legge che negli ultimi tempi dicesse in giro che “doveva lasciare Berlino, perché lo stava uccidendo”. Sembra fosse tornato negli Stati Uniti, sembra si trovasse a Memphis, sembra sia stata un’overdose di fentanyl, sembra sembra sembra. Sul suo profilo ci sono foto di qualche anno fa di un matrimonio ebraico – forse il suo – con una ragazza bionda. Per il resto, solo foto di lui con le carte, in pose strane, in posti strani – perché Morgan non ha mai trovato un posto dove stare, e per me la sua fine è la fine di un luogo dell’anima: una città che perde la spensieratezza per diventare dramma, ma rimarrà per sempre romantica.

Morgan Hasenfuß

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